La moneta, il cambio valutario, la progressività tributaria

Nel quadro che abbiamo descritto, in cui il motore del benessere sociale è la spinta alla creazione di potere di negoziazione da parte di un soggetto al fine di essere percepito come utile da parte dei suoi pari e avere quindi l’aspettativa che essi vogliano offrire un prodotto in cambio, la moneta dovrebbe svolgere varie funzioni interne all’ambito della distribuzione e l’aumento delle aspettative reciproche, funzioni che vanno oltre quelle svolte quando la moneta è erogata sotto forma di credito, come abbiamo ampiamente trattato in precedenza.

La moneta può essere un simbolo accettato entro un circuito chiuso in cui gli agenti economici si conoscono e si fidano l’uno dell’altro, e in questo caso è uno strumento occasionale per creare un’aspettativa di reciprocità. L’introduzione della moneta a corso legale aggiunge a questo l’assicurazione, più a lungo termine, che il contributo di un produttore sarà riconosciuto entro un più ampio perimetro. Attraverso la tassazione e i servizi pubblici, poi, la moneta assicura un livello di reciprocità più alto e complesso. Un’altra funzione del denaro può essere di bilanciare e redistribuire la fiducia reciproca, come accade nel caso di una spirale inflazionistica salari-prezzi a discapito dei creditori e di chi lucra sulla rendita. Da questo punto di vista, una spirale inflazionistica che coinvolge lavoratori e imprese coincide con un graduale aumento delle aspettative reciproche circa il valore del proprio lavoro in quanto “prodotto che riconosce i desideri della comunità”. Questo significherebbe un aumento del potere di negoziazione “aggregato” della classe dei produttori rispetto all’“utilità” dei creditori e dei redditieri, i quali tendono a vivere con un vantaggio ‘strutturale’ in termini di potere di negoziazione.

Una volta che la moneta è interpretata in questi termini è più semplice comprendere la funzione di riequilibrio delle aspettative reciproche che può assumere la fluttuazione del cambio valutario. Se il valore e la distribuzione della moneta devono essere espressione degli obiettivi che abbiamo detto (ovvero massimizzare ed equalizzare il grado di aspettative, utilità e quindi di potere di negoziazione di tutti), il livello delle conoscenze delle regolarità empiriche del contesto attuale ci impone di considerare la leva del cambio valutario (o meglio della svalutazione, se consideriamo la situazione Italiana odierna, fossilizzata in quello che è un sistema di cambi fissi de facto) come meccanismo non prescindibile per ottenere un recupero il più completo e veloce possibile della domanda percepita dagli imprenditori di una nazione in caso di significativa perdita di competitività, il che porta ad un nuovo aumento delle loro aspettative e, quindi, della loro produttività. Ci si può richiamare, ad esempio, agli studi di Thirlwall, il quale afferma che la differenza nelle potenzialità di crescita tra le nazioni può essere spiegata dai vincoli della bilancia dei pagamenti, e che svalutare la valuta di un paese «renderebbe l’export più attraente e ridurrebbe l’elasticità della domanda di importazioni al reddito, così che la domanda può essere espansa senza produrre difficoltà nella bilancia dei pagamenti». Entro certi limiti, «questa domanda può generare la sua propria offerta incoraggiando gli investimenti, riducendo la disoccupazione, incentivando la crescita della produttività e così via». Una teoria del genere è anche richiamata da Bagnai, il quale sottolinea che la fissazione dei rispettivi tassi di cambio sia deleteria per la crescita della produttività di paesi che, per qualche ragione, hanno differenti tassi di crescita nella loro competitività. Dal nostro punto di vista etico queste politiche corrisponderebbero a facilitare l’accesso allo strumento (monetario, che manifesta “meriti” e aspettative di reciprocità) utile ad ottenere ciò che è prodotto dentro un certo paese, rispetto a ciò che è prodotto altrove. Questo equivale a migliorare le aspettative degli imprenditori domestici e, di conseguenza, la loro volontà di incrementare il loro potere di negoziazione e la loro utilità. Un calcolo del livello adeguato di protezionismo a favore dei prodotti di una comunità in caso di marcato squilibrio competitivo in alcuni settori “nascenti” o attaccati dal dumping salariale può essere interpretato in maniera molto simile.

Infine, è importante applicare le categorie etico-economiche che abbiamo illustrato in queste sezioni all’interpretazione dei meccanismi di progressività del sistema tributario e di welfare, soprattutto quando questo può essere considerato non necessariamente un “diritto acquisito” tramite contributi e simili. Favorire il benessere e, quindi, il potere economico e la capacità di acquisto delle fasce basse tramite questi strumenti è chiaramente in linea con lo scopo di rendere eguali i poteri di negoziazione di tutti, con le conseguenze positive circa la crescita aggregata del benessere e la stabilità che abbiamo richiamato nelle sezioni precedenti.

Ma può questo essere considerato coerente anche con il concetto di “merito” di cui la nostra cultura, soprattutto morale ed economica, è impregnata? La risposta può essere positiva se analizziamo il concetto di merito partendo dalla sua radice pragmatica: un atteggiamento meritocratico può essere coerente col favorire chi è “meno fortunato” o chi in un certo periodo “produce di meno”. Infatti, l’idea di “merito” ha senso solo se essa è associata all’atto di una “compensazione” per la sofferenza o lo sforzo di un individuo oppure se è associata ad un calcolo pratico circa l’incentivo a dare un contributo alla comunità che il “riconoscimento del merito” può instaurare nella persona. Entrambe queste facce dell’idea di merito hanno quindi delle finalità pragmatiche sottostanti, finalità particolari che sono già state messe in funzione dell’idea di giustizia promossa in questo manifesto filosofico-economico, la quale è l’ottimizzazione e l’equalizzazione dell’utilità reciproca (e quindi del potere di negoziazione reciproco e delle aspettative reciproche, come condizioni di essa). Il merito non si riferisce ad altro che all’aspettativa di una compensazione proporzionata al livello di sforzo per riconoscere e realizzare il desiderio dell’altro, e tutto ciò deve essere impostato al fine di avvicinarsi il più possibile quella ottimizzazione.

In questo senso, alleggerire la pressione fiscale alle fasce di lavoratori che tendono ad ottenere minori guadagni nonostante uno sforzo fisico o mentale che è uguale o maggiore a chi ne ottiene di più alti equivale a bilanciare le aspettative di benessere percepite dai diversi individui. Se consideriamo, poi, che il ‘compenso’ assicurato dal mercato a determinati individui può essere estremamente sproporzionato rispetto allo sforzo e che un determinato aumento della pressione fiscale per essi in alcuni casi è meno percepito, in termini di qualità della vita, rispetto a quanta è percepita la diminuzione per i produttori “meno fortunati”, l’aumento delle aspettative economiche può essere considerato anche avvenire in termini complessivi.

La stessa ratio può essere applicata all’opportunità che molti servizi essenziali siano di carattere pubblico e non privato, una volta che si consideri che una delle caratteristiche peculiari del servizio pubblico è, in teoria, il costo minore dovuto all’assenza dello scopo del profitto e, quindi, della pretesa di ottenere surplus in cambio della soddisfazione di un determinato fabbisogno delle fasce medio-basse della popolazione. Questo, in combinazione con il finanziamento del servizio ricavato dalla progressività della tassazione, può essere considerato una redistribuzione di potere economico che fa il bene della crescita complessiva e della stabilità del sistema.

Un’ultima necessità sociale che consegue dalla prescrizione della massimizzazione e dell’uguaglianza del potere economico di ogni individuo sta nel possesso e gestione dei mezzi di produzione all’interno delle imprese e delle catene produttive, che dovrebbe essere condiviso tra tutti gli agenti economici che contribuiscono alla creazione di un prodotto con uno sforzo equivalente. Una ottimizzazione del potere delle associazioni sindacali può essere un buon obiettivo, anche se potrebbe non essere sufficiente per contrattare un riconoscimento economico equo per chi vende forza lavoro e per chi gestisce strumenti di produzione. La struttura stessa del progresso tecnologico e dell’imprevedibilità delle decisioni dei singoli può far sì che un imprenditore possa licenziare dipendenti “in eccesso” e affidare un grande quantitativo di lavoro a ristretti gruppi di lavoratori (i pochi che abbiano “tradito” la causa del sindacato) in modo che questi ultimi abbiano un’entrata minore del capitalista, ma che essi e il capitalista abbiano comunque un’entrata maggiore rispetto a quella che tutti avrebbero nel caso in cui lo stesso lavoro fosse diviso e “spalmato” su più lavoratori disponibili. La struttura ottimale sarebbe quella cooperativa, in cui il surplus sia spalmato nelle entrate di più lavoratori, i quali si dividono i compiti anche a seguito di un progresso tecnologico che diminuisce il fabbisogno di forza lavoro, fino a quando non vi sono le condizioni umane perché parte di questi lavoratori possano mettersi in proprio.