In maniera coerente con la coincidenza di preoccupazioni filosofiche ed economiche che abbiamo teorizzato, i concetti di debito e credito devono essere descritti in un’ottica che è filosofica ed economica allo stesso tempo.
Iniziamo col dire che il concetto di credito può essere possibile solo come un caso particolare di un’economia fondata sullo scambio, in qualsiasi forma essa si intenda – capitalista, pianificata con divisione del lavoro o fondata su legami di baratto e doni. Ora, lo scopo ultimo di un’economia di scambio per la “volontà umana”, considerato il fine del raggiungimento della massima giustizia e benessere sopra descritti, dovrebbe essere formare una rete di individui i quali, per mezzo di un ottimizzato potere di negoziazione reciproco dovuto all’utilità che essi producono, puntano al benessere più alto per tutti. Il credito, allora, emergerebbe razionalmente come strumento necessario dovuto al fatto che sia tipico, dentro un’economia di scambio, che non tutti posseggano immediatamente gli strumenti adatti a metter su una nuova attività o ad aggiornare quella vecchia in risposta a contingenti cambiamenti nella domanda. Il meccanismo di credito e debito, perciò, può essere definito come una forma di “accordo anticipato” che una comunità – per mezzo di un’istituzione creditizia – raggiunge con un futuro produttore, un accordo che può essere necessario perché è fisiologicamente possibile una discrepanza tra il riconoscimento di un accordo conveniente futuro ed il possesso, da parte del futuro produttore, delle risorse materiali utili al proprio sostentamento o alla realizzazione del prodotto da scambiare. Concepito in questo modo, la funzione razionale del credito, il senso eticamente coerente di esso, dovrebbe essere il costituire un investimento da parte di una società che riconosce le più alte potenzialità produttive di ogni individuo, le mette in relazione con i potenziali desideri della comunità e fornisce gli strumenti monetari necessari così che ogni agente economico sia capace di realizzare le relative produzioni e transazioni. In altre parole, il credito dovrebbe porre le condizioni materiali e relazionali per una massimizzata utilità reciproca dentro un ambiente che ha fisiologicamente asimmetrie temporali e materiali tra i diversi individui.
Ma una volta che il credito è definito in questo modo, esso assume un significato esistenziale ed ontologico che ha a che fare con la finitezza umana. Debito e credito non sono un accadimento empiricamente evitabile che dipende solo da una disuguaglianza sociale curabile. Sono le espressioni dell’incompletezza e del caos costitutivi che caratterizzano la realizzazione esistenziale degli individui singoli nella totale irregolarità e casualità delle loro capacità, dei loro bisogni e desideri. In altre parole, è costitutivo che ci siano sempre discrepanze temporali di potere di negoziazione, le quali rendono alcuni individui più o meno temporaneamente dipendenti da altri. In questo senso, non c’è differenza sostanziale tra il senso del debito economico come “sintomo di contingenza e finitezza” e ciò che Heidegger descrive in Essere e Tempo come la tonalità emotiva della colpa, cioè della consapevolezza di esistere solo in termini di progetto-gettato, che ha sempre il suo essere da definire e da realizzare. In altri termini, l’esistenza umana è una mancanza, è qualcosa dovuto sempre a qualcos’altro o a qualcun altro, un debito e una dipendenza che essa si sforza a compensare o ripagare. Questa “colpevolezza” esistenziale ed ontologica sembra essere anche alla base del debito e della colpa nella loro inerente accezione morale. Come si dice in Essere e Tempo, questo essere-colpevole esistenziale è proprio la condizione della possibilità del bene e del male “morale”. Infatti, i valori e il linguaggio morale possono essere letti come un modo, un’espressione della reciprocità e della dipendenza reciproca insita nei progetti esistenziali umani. Rappresentano, essi, tensioni intersoggettive dovute agli squilibri tra i progetti umani che devono convivere, squilibri dovuti al fondamento “nullo”, cioè contingente e arbitrario del progettare umano.
C’è da aggiungere che, nonostante la nozione di credito-debito così delineata possa essere considerata in accordo con la concezione dell’uomo di gran parte della filosofia post-Nietzscheana, post-Heideggeriana e post-strutturalista, troviamo proprio in diversi rappresentanti di queste una concezione di credito incoerente con le loro premesse.
Jacques Derrida, uno dei maggiori teorici della contingenza del reale, per esempio, partendo dalla convinzione che ogni circuito tipico dell’economia dello scambio e del “rimborso” e del debito sia espressione di un insieme di forze e di norme pre-stabilite e, quindi, arbitrarie in confronto alle necessità del “prossimo”, propone il superamento tout-court di queste categorie etico-economiche. Egli propone un’etica del dono e dell’accoglienza incondizionata delle richieste dell’Altro, scontrandosi però con l’aporia per cui ogni tipo di “dono” trasmetterebbe al ricevente determinati valori culturali e relazioni sociali verso i quali esso diverrebbe “debitore” nel suo modo di vivere, non superando il pericolo determinato dall’arbitrarietà di valori stabiliti con cui ci si identifica.
La tendenza di questi teorici è di analizzare il fenomeno del debito non come uno stratagemma necessario, fisiologico per coordinare le potenzialità di ognuno e realizzare la piena identità di tutti, ma come un dipendenza dalla razionalità di un’autorità “esterna” al debitore. Di conseguenza, l’obiettivo ‘sociale’ sarebbe reprimere il concetto di credito-debito (obiettivo vano). Ciò è esemplificato anche in Friedrich Nietzsche e, recentemente, nell’antropologo David Graeber. Nietzsche sostiene che, anche se il concetto di debito nacque con la relazione tra l’uomo nobile e dominante e l’uomo oppresso e senza potere, il senso di “colpa” che derivò da ciò venne idealizzato nel momento in cui il debito iniziò ad essere concepito anche in relazione ai “più alti” creditori esistenziali, come gli antenati e Dio. Da qui, il senso di rispetto per la loro morale, il quale causa una dipendenza verso una “razionalità” estranea al vitalismo umano. Tuttavia, la soluzione “politica” di Nietzsche – la creazione di una specie superiore, sovrana di uomo al cui servizio i deboli dovrebbero lavorare, in modo che l’esemplare uomo raggiunga la massima potenza e salute – non farebbe sparire nessuno degli effetti del debito. Le asimmetrie, la contingenza e l’angoscia spaesante dovuta al fondamento nullo dell’esistenza in senso Heideggeriano, sempre intrinseche nella vita sia dei “padroni” che degli “schiavi”, li renderebbe sempre passibili di andare in “debito” verso un qualche ideale socialmente costruito di completezza. Ciò causerebbe non meno instabilità e afflizione sociale di prima, rendendo vano l’obiettivo di creare una più “sana” condizione dell’umanità. Un’obiezione simile potrebbe essere applicata alla lettura antropologica del debito effettuata da Graeber, in cui egli manifesta la preferenza per un’epoca della storia umana dove, si suppone, lo strumento dell’io-ti-devo fosse meno deleterio nei suoi effetti di sfruttamento e dominio, fosse meno un “debito” e più un’aspettativa relazionale, e ciò sarebbe dovuto a quanto poco gli esseri umani vedevano essi stessi come meri strumenti del mercato.