Giustizia e strumenti finanziari

Secondo quanto si è detto sopra, l’unica logica eticamente coerente con la creazione e l’allocazione di un credito si ha quando esso è un investimento da parte di una comunità che riconosce le più alte potenzialità produttive di ogni individuo, le mette in relazione con i potenziali desideri della comunità e fornisce gli strumenti monetari necessari così che ogni agente economico sia capace di realizzare le relative produzioni e transazioni.

Questa definizione, si è visto, bandisce ogni concezione privatistica dell’ente creditizio e indica come problematica l’esistenza di una Banca Centrale che agisce come mera “banca delle banche”. Si può dire che un ipotetico sistema in accordo con i presupposti sopra somiglierebbe ad un unico istituto creditizio gestito pubblicamente il quale, tramite le sue succursali provinciali e comunali, concede in prestito a tassi d’interesse reali nulli la quantità di moneta creata ad hoc giusta per bilanciare il ciclo economico, valutando la necessità specifica di un certo contesto economico geografico e settore produttivo. Le riflessioni sull’inopportunità di un sistema privatistico per realizzare un investimento socialmente utile nel lungo termine implicano anche la preferenza per una politica industriale in cui lo Stato sia parte attiva nel finanziare e creare massicciamente innovazioni e industrie di base.

Ma questa concezione di credito e di giustizia, indipendentemente dal fatto che sia realizzato o meno il quadro appena descritto, ha una rilevanza estrema anche per quanto riguarda l’esistenza degli attuali strumenti finanziari complessi.

Si è dimostrato che una vera concezione di giustizia prevede che gli agenti di un’economia di scambio abbiamo un potere di negoziazione reciproco più alto possibile e, anche, più eguale possibile fra essi. Da ciò seguono due importanti corollari:

1Il sistema creditizio è un vero e proprio agente etico e il suo scopo è incentivare questa uguaglianza e massimizzazione, ovvero fare quello che non si può pretendere da tutti i “privati” senza che venga percepito come una imposizione. I – relativamente – pochi individui che operano in questo sistema sono in una posizione speciale perché devono porre le condizioni e le potenzialità per questo obiettivo, essi non dovrebbero perciò puntare a incrementare il proprio potere economico come ogni altro imprenditore legittimamente fa ma applicare ad essi stessi questi parametri. Questo significa che, oltre non applicare valutazioni di rischi-benefici tipiche di un agente individuale (bensì collettivo), non dovrebbero utilizzare il credito come una merce, in una maniera utile a ottenere un guadagno e un potere di negoziazione più grande di quello di altri agenti e/o ad alterare lo scopo ultimo della creazione di credito stessa : non devono operare come un comune imprenditore.

Stiamo esperendo in questo momento storico un sistema bancario fragile perchè il CREDITO è una MERCE prodotta da imprenditori (Banche commerciali) tramite dei costi (moneta di Banca Centrale). Degli imprenditori che quindi vanno in crisi come tutti gli imprenditori quando l’intero sistema si scolla e i loro clienti non riescono a pagarli. Degli imprenditori che, quando c’è abbondanza cercano di appioppare più credito (merce) possibile, anche a chi non potrebbe ripagarla, confidando che i loro clienti o i clienti dei loro clienti usino altro debito per ripagarli e “chi si è visto si è visto”: la patata bollente ce l’ha un altro. Come è stato nel Sud Europa ed in Grecia nei primi anni dell’Euro (si veda ciclo di Frenkel). Imprenditori che, come i comuni imprenditori, cercano di svendere la loro attività fingendo sul valore di essa quando le cose paiono andare male. Come i passaggi fatti dai mutui subprime , miccia della crisi globale.

Tutto ciò viene naturale e LEGITTIMO fare ad un imprenditore, al quale non interessa e non deve interessare se questo a lungo andare crei carenza di fiducia reciproca e scompensi tra poli “forti” e poli “deboli” del sistema.

Ma a chi eroga credito DOVREBBE interessare. Il credito non dovrebbe avere il carattere di una merce e le banche non dovrebbero essere imprenditori che possono fallire e venire inglobati dai pochi imprenditori sopravvissuti (come il caso del Banco Popular), i quali avranno così ancora più potere di negoziazione sul resto della società. Un sistema bancario non dovrebbe né essere imprenditore né poter acquisire maggior potere di altre imprese.

2 – In generale, uno Stato dovrebbe abolire o scoraggiare l’uso di strumenti e l’esistenza di fenomeni che favoriscono strutturalmente l’eccessivo guadagno di alcuni agenti economici rispetto ad altri, come avviene nelle bolle speculative e nelle “scommesse” finanziarie.

Il punto uno, innanzitutto, richiama il concetto stesso di tasso d’interesse sul credito, concepito come effetto di una “contrattazione capitalistica” tra imprese di credito o tra queste e gli altri tipi di impresa. La forte richiesta di credito, l’incertezza della sua onorabilità, il forte afflusso di capitali e depositi non dovrebbero portare ad un aumento dei tassi e del potere di negoziazione di un certo istituto nei confronti delle imprese, come vorrebbe una logica in cui la convenienza dell’erogatore di credito è assolutizzata.

Il primo punto richiama soprattutto diversi strumenti connessi alle operazioni di questi istituti. Le obbligazioni, nel loro mercato secondario, danno la possibilità di comprare e vendere lo status di “venditore di credito”. In questo tipo di commercio le aspettative che motivano la concessione di un credito e la contrazione di un debito sono influenzate dal valore che essi, come obbligazioni, sviluppano nel mercato secondario. Questo valore è prodotto, in modo autoreferenziale, dalle passate e presenti decisioni di acquisto e vendita di obbligazioni da parte degli investitori presenti in questo mercato. Ma questa dinamica, fondata più sullo “spirito animale” degli attori piuttosto che su una verifica dei progetti produttivi, de-contestualizza il valore di un’obbligazione e, quindi, l’aspettativa di convenienza dell’essere “venditore di credito” rispetto allo sviluppo delle reali potenzialità degli attori ai quali il credito-debito si riferisce. Si vede come, in conseguenza di ciò, la logica strutturale della creazione e dell’esistenza di un credito diventi totalmente differente rispetto alla logica ideale più volte richiamata. E’ interessante notare come in questo quadro gli investimenti in azioni pur rappresentando capitale di rischio e non credito, svolgano con termini quantitativamente diversi la stessa funzione di allocazione della moneta svolta dal credito, con le stesse problematiche in termini di logica privatistica di rischio e di alienazione del valore di tale allocazione che abbiamo riscontrato ora per le obbligazioni. Infine, se sia il credito sia, abbiamo visto, la comunità in generale “dovrebbe porre le condizioni materiali e relazionali per una massimizzata utilità reciproca dentro un ambiente che ha fisiologicamente asimmetrie temporali e materiali tra i diversi individui”, riscontriamo un problema etico anche nel fatto stesso che alcuni agenti economici siano capaci di ottenere un guadagno di rendita – piuttosto che producendo qualcosa – prestando o investendo presso altri produttori una certa somma guadagnata in precedenza. Se ciò non è socialmente necessario, se ogni tipo di finanziamento utile alla società può essere svolto da un istituto pubblico, le somme risparmiate da un cittadino dovrebbero essere semplicemente tutelate dallo Stato senza avere altra funzione. L’unico intervento ammissibile dovrebbe essere la tutela del valore reale dei risparmi in caso di eccessiva inflazione.

La nostra concezione di giustizia cozza anche con l’esistenza dell’intera famiglia dei contratti derivati, che sono alcuni degli strumenti a cui si riferisce il punto due. Al contrario di quello che vorrebbe l’interpretazione standard per la quale essi svolgono una funzione di protezione dal rischio finanziario (da alterazioni repentine e significative del prezzo di prodotti o di tassi d’interesse), essi sono di fatto e strutturalmente una tipologia di scommessa, la quale può accidentalmente possedere la funzione di tutelare da un rischio. Attraverso i contratti futures, ad esempio, le parti si obbligano allo scambio (alla data di scadenza) di una determinata quantità di attività finanziarie (lo scambio può essere fisico o virtuale, in base al contratto, e solo il 2% delle transazioni si traduce in un effettivo acquisto/vendita di merci, a dimostrare il carattere speculativo di questi strumenti) ad un prezzo stabilito in cui il guadagno (o la perdita) sarà determinato dalla differenza tra il valore dell’indice di riferimento alla stipulazione del contratto ed il valore dello stesso indice nel giorno di scadenza.

Ma, si obietterà, pur ammettendo che questi strumenti costituiscano delle scommesse in cui vi è un “vincitore” ed un “perdente”, cosa vi sarebbe di male in ciò una volta riconosciuta la consapevolezza del rischio da parte dei contraenti? In primis, vi è da ricordare l’alterazione dei prezzi di mercato delle merci e dei titoli di debito che questi strumenti comportano, con conseguenze simili a quelli visti per il mercato secondario delle obbligazioni. Ma il maggiore problema è che questa libertà ha degli effetti collaterali che sono in contrasto con le condizioni di “giustizia” dell’intero tessuto sociale: il risultato di una scommessa è, per definizione, casuale e può incrementare o scatenare discrepanze tra potere economico e tra potere di negoziazione degli “scommettitori” e tra quelli di essi e di altri agenti economici. Questo accadrebbe inoltre senza la creazione di nessun prodotto e, quindi, senza neanche un incremento “in aggregato” di ricchezza, neppure a breve termine: sarebbe un puro trasferimento.

La conseguenza di questa struttura dei contratti derivati e delle scommesse è che ogni eventuale bisogno di copertura di rischio finanziario sui prezzi (finalizzata, magari, a incrementare le buone aspettative di un certo gruppo sociale posto che ciò faccia bene ad una massimizzazione ed equalizzazione del potere economico in generale) dovrebbe essere fornita da un ente apposito e non sotto forma di scommessa fra due soggetti ma in modo unilaterale, cioè tutelando aspettative e potere economico del solo soggetto la protezione del quale apporterebbe più beneficio alla collettività. Va da sé che la maggior parte delle volte in cui incontriamo questi strumenti e fenomeni nella realtà essi sono in combinazione tra loro sommando gli effetti distorsivi di ognuno di essi.

Un ultimo ma non poco importante fenomeno finanziario che va nella direzione opposta dell’aumento del benessere generale è quello, complesso, delle bolle speculative. Il meccanismo tramite il quale una bolla speculativa diventa vantaggiosa per chi partecipa ad essa è il trasformare dei beni dal rappresentare un prodotto da essere “consumato” al rappresentare esclusivamente o prevalentemente un prodotto da essere acquistato-per-essere-rivenduto. Questa trasformazione “concettuale” del prodotto è alla base della crescita esponenziale della domanda per esso e, quindi, del suo valore. Lo stesso risultato sarebbe impossibile attraverso la vendita di beni acquistati al fine di essere solo consumati: mentre fisiologicamente la domanda di un consumatore raggiunge un limite, la domanda di un circuito di rivenditori è potenzialmente infinita. La conseguenza di ciò è che all’interno di una società in cui è tipica l’esistenza di circuiti speculativi, al fine di fornire ad ogni individuo gli strumenti per massimizzare ed equalizzare l’utilità e il potere di negoziazione reciproco, come vorrebbe il meccanismo della società giusta e sostenibile, un’autorità politica dovrebbe dare ad ognuno gli strumenti monetari, conoscitivi e culturali per imitare uno speculatore, con il rischio concreto di ridurre le tipologie di beni presenti sul mercato a prodotti acquistati-per-essere-rivenduti. Questo è chiaramente in contrasto con l’obiettivo di ottimizzare la realizzazione dei bisogni materiali e ‘spirituali’ di tutti. Chi sta a capo di una comunità dovrebbe scegliere tra il permettere discrepanze di potere enormi con le relative conseguenze sulla ricchezza aggregata nel lungo termine – come quelle scatenate dall’aumento eccessivo dei tassi d’interesse quando il credito bancario è parte attiva della speculazione, o legate all’aumento del prezzo degli immobili – oppure permettere un’alterazione colossale del riconoscimento dei prodotti necessari a soddisfare i bisogni della popolazione.