GOVERNO DRAGHI. SEI MESI DI CLASSISMO IN NOME DELL’UNITÀ NAZIONALE

GOVERNO DRAGHI. SEI MESI DI CLASSISMO IN NOME DELL’UNITÀ NAZIONALE

Il numero di provvedimenti regressivi e pericolosi per la classe lavoratrice che il governo Draghi sta portando avanti nelle sedi di discussione politica, o che ha fatto già approvare, è talmente vasto che di essi si può dare solo un elenco esemplificativo, reso però necessario per il fatto che, a livello analitico e mediatico, di ognuna delle misure se ne parla per qualche giorno, per poi spostare l’attenzione sulla successiva. L’approfondimento e il dibattito politico sulla loro portata divengono così insufficienti e parziali. Chi parla più della liberalizzazione dei subappalti? Ora c’è da discutere del macello sociale provocato dallo sblocco dei licenziamenti,[1] anzi no, della riforma della giustizia. L’ultimo disegno di legge ad assurgere agli onori delle cronache è il “Ddl Concorrenza”, che il governo sarebbe pronto a varare, il quale dovrebbe prevedere gare per le concessioni delle aree demaniali portuali, misure sulle concessioni per la distribuzione del gas naturale oltre che, in materia di energia, un intervento per la liberalizzazione della vendita di energia elettrica accompagnato (almeno nelle intenzioni) “dalla tutela dei clienti vulnerabili”.[2] L’identificazione della “ripartenza” del Paese con l’incentivo alla competizione – e quindi, in definitiva, al reinvestimento dei capitali privati a discapito di ogni regolamentazione a vantaggio delle classi popolari – vede in questo provvedimento in elaborazione solo l’ultimo esempio di una schiera di misure volte a semplificare la vita al padronato nazionale, anche per mezzo dell’applicazione delle così dette “condizioni” e riforme imposte dal Recovery Fund. È dal reale significato politico di questo, vera cornice materiale-ideologica che giustifica le misure di Draghi, che cominciamo la nostra analisi.

Il Recovery Plan: spesa per i padroni e debito per tutti

Il via libera della Commissione Ue al Piano nazionale di ripresa e resilienza italiano ha acceso definitivamente i riflettori sul Recovery Fund e sulla sua operatività. Innanzitutto occorre ricordare che si tratta di un piano che, numeri alla mano, stanzia prevalentemente a debito tramite la Commissione Europea, ogni anno, risorse sostitutive del classico debito pubblico contratto con i titoli di Stato che ammontano a circa 30 miliardi all’anno.[3] Tale ammontare di prestiti annuali ha una funzione di controllo politico, più che di espansione monetaria. Per mettere le cose un po’ in prospettiva, solo a marzo del 2020, appena esplosa la pandemia, sono stati rinnovati dal Tesoro senza problemi 52 miliardi di titoli di Stato che erano in scadenza. Tra Gennaio e Dicembre 2020 sono scaduti in totale 380 miliardi di titoli di Stato che sono stati rinnovati.[4] Più che una copertura finanziaria a fronte di un crollo del Pil che il primo anno di Covid è stato di circa 160 miliardi, il meccanismo europeo appare uno stratagemma delle borghesie nazionali finalizzato a controllare con un apparato più forte e rigido l’utilizzo filo-aziendalistico di tali risorse. Pochi soldi, spesi (come vedremo) dalle stesse classi dominanti a loro favore dopo averli presi in prestito dalla loro stessa liquidità finanziaria, ma che dovranno essere ripagati da tutta la collettività: si tratta semplicemente di una ristrutturazione capitalistica che mira a reintrodurre il capitale, in parte, nei circoli produttivi. Con un peggioramento di qualità del lavoro e dei servizi.

Nelle dichiarazioni del Consiglio Ue in vista dell’approvazione del Piano si mette in evidenza quanto questa volontà di ristrutturazione sia combinata, con buona pace di chi aveva intravisto nel nuovo corso post-crisi un recupero, perlomeno, della strategia keynesiana di salvataggio del capitalismo (considerata più “soft” nei confronti dei lavoratori), con un deciso rincarare la dose con quel rigore di bilancio che punta a smantellare qualsiasi servizio e tutela collettiva al fine di rafforzare il potere ed il valore dei capitali privati.

L’esecutivo comunitario ha confermato, infatti, che il Patto di Stabilità rimarrà sospeso anche nel 2022. Resta che all’Italia, paese segnato da un debito ormai elevatissimo, suggerisce caldamente di perseguire «una politica di bilancio prudente».

«Abbiamo deciso – ha detto il vicepresidente Valdis Dombrovskis – di prolungare la clausola di salvaguardia nel 2022, con l’obiettivo di disattivarla nel 2023.[5]

Si chiarisce dunque nella proposta di esecuzione del Consiglio dell’UE che il piano non esce dalla cornice dei vincoli di spesa pubblica, vincoli necessari ad evitare qualsiasi tentazione di spese sociali eccessive, aumento delle retribuzioni e aumento dell’inflazione che temono tanto i grandi capitali privati: «ci si attende che le riforme e gli investimenti inclusi nel piano contribuiscano alla sostenibilità delle finanze pubbliche, accrescano la resilienza del settore sanitario, aumentino l’efficacia delle politiche attive del mercato del lavoro».[6]

Politica confermata poco dopo tramite il sempreverde richiamo alla spending review: «si tratta di misure tese a migliorare l’efficienza della spesa pubblica attraverso un quadro rafforzato di revisione della spesa e il completamento della riforma delle relazioni in materia di bilancio tra i diversi livelli amministrativi».[7]

Senza approfondire i primi effetti del Piano riguardo ad una impostazione di nuovi concorsi pubblici cuciti su misura per chi ha disponibilità per comprarsi titoli e che prevedono nuovi posti solo a tempo determinato,[8] il passaggio più esplicito dell’aziendalismo del Pnrr si ha quando si parla di lavoro e imprese:

«il piano prevede riforme sostanziali per migliorare il contesto imprenditoriale generale e ridurre gli ostacoli alla concorrenza. Ci si aspetta che l’adozione di una nuova legge annuale sulla concorrenza 2021 riduca i tempi per l’avvio di un’attività in Italia e aumenti i processi competitivi per l’aggiudicazione dei contratti di servizi pubblici locali, in particolare per quanto riguarda la gestione dei rifiuti, i trasporti (porti, ferrovie regionali e trasporto pubblico locale) e le concessioni (autostrade, stazioni di ricarica per la mobilità elettrica ed energia idroelettrica). La legislazione settoriale nel campo dell’energia elimina gradualmente i prezzi regolamentati dell’energia elettrica e contempla misure di accompagnamento volte a sostenere l’aumento della concorrenza nei mercati al dettaglio dell’energia e la diffusione di contatori intelligenti di seconda generazione. La revisione della legislazione in materia di appalti pubblici comprende regolamenti volti a ridurre il tempo che intercorre tra la pubblicazione dei contratti e la loro aggiudicazione».[9]

Nonostante anni di fallimenti in tema di privatizzazioni e liberalizzazioni di servizi pubblici fondamentali, si prosegue dunque sulla strada della massimizzazione della “competizione”, della facilitazione delle concessioni e dell’aggiudicazione dei contratti, e della liberalizzazione assoluta dei prezzi dell’energia.

L’impostazione del Recovery Fund e del relativo piano si riflette benissimo nella scarsità di fondi assegnanti alla sanità nelle ultime leggi di bilancio. La spesa pro capite a prezzi costanti (prezzi 2010) è passata, ricordiamo, da 1.893 a 1.746 euro, con una riduzione media annua di 8 decimi di punto.[10] Servirebbero dunque 9 miliardi di euro strutturali solo per arrivare alla spesa pro capire reale che era a regime 10 anni fa. Se si considera (com’è fisiologico) l’aumento che dovrebbe avvenire ogni anno con l’invecchiamento della popolazione, l’aumento dei costi delle nuove tecnologie sanitarie, le spese in conto capitale che servirebbero per mettere a posto gli ospedali chiusi e vetusti, lo stanziamento che servirebbe per avere una sanità dignitosa, a maggior ragione a seguito di una pandemia globale, sarebbe di decine di miliardi.

Invece, notoriamente, la spesa sanitaria italiana è aumentata di appena 8 miliardi nel 2020 (per le disposizioni anti Covid), arriverà a +12 miliardi nel 2021 (per gli effetti indotti dal rinnovo dei contratti e delle convenzioni del personale del SSN per il triennio 2019 2021) per poi riscendere a 123 miliardi nel 2022 (come nel 2020) e risalire gradualmente di poco negli anni successivi.[11] Un piano di rilancio del SSN profondamente insufficiente.

Un dato da aggiungere è, poi, che nel 2018 ben il 20,3% del totale della spesa pubblica sanitaria era destinata a strutture private accreditate,[12] ovvero di ospedali e cliniche private che operano generando profitti sulla salute e che riescono a praticare tariffe calmierate (simili o uguali al ticket ospedaliero pubblico) grazie ai sussidi statali, truffando spesso e volentieri sui rimborsi e rivelatesi perfettamente inutili ad affrontare situazioni di emergenza (essendo specializzate solo in ambiti dove l’incertezza è minore). Questo problema, come quello della precarietà sanitaria, non è minimamente toccato dai provvedimenti Draghi e dal piano di ripresa.

Per quanto riguarda il tema lavoro, invece, l’unico passaggio del Recovery Plan degno di nota tratta non di diritti e piena occupazione ma di intermediazione e facilitazioni alle imprese (seppur “rosa”): «il Governo investe nello sviluppo dei centri per l’impiego e nell’imprenditorialità femminile, con la creazione di un nuovo Fondo Impresa Donna».

Alla luce di tutto questo, le velleità di rinnovamento digitale, ecologico e infrastrutturale del Paese appaiono, anche alla luce della scarsità di risorse, per ciò che sono: un mero lubrificante pagato con soldi pubblici per accudire la ristrutturazione e il buon funzionamento della profittabilità di chi detiene già un capitale da far fruttare.

Infine, dopo mesi di dibattito riguardo i disagi causati dalla didattica a distanza e dall’assenza di investimenti nel personale scolastico e nei trasporti, è utile ricordare come nel Recovery Plan il capitolo dedicato all’istruzione non fa che confermare questo assetto.

Il totale dei fondi destinati dal piano all’istruzione primaria e secondaria è pari a 11.62 miliardi. Se si tiene in conto che solo la riforma Gelmini ha tagliato quasi 8 miliardi annui dal budget di questo settore, risulta evidente come questi finanziamenti siano ridicoli a fronte di quasi 100 miliardi di tagli.

Dalle indagini PISA 2018 (come da tutte le precedenti o dalla letteratura scientifica di riferimento) si evince, poi, come il problema maggiore dell’istruzione sia oggi la disparità territoriale. Eppure vediamo che i fondi stanziati per l’intervento straordinario finalizzato alla riduzione dei divari territoriali sono miseri 1,5 miliardi.

Il totale delle cattedre da coprire salirà, a settembre, a 107.424 (parliamo solo dei posti vacanti) e a questi si aggiungeranno le deroghe su sostegno, che quest’anno hanno raggiunto quota 77.600 e altri 14.142 posti di organico di fatto.[13] Questi, insieme ai posti COVID, se verranno riconfermati, porteranno le supplenze fino al termine dell’anno a quota 240 mila, un nuovo record negativo per il nostro Paese. Eppure nel Recovery Plan non si fa cenno alla stabilizzazione degli insegnanti.

Non va meglio neppure astraendo dal lato puramente contabile e concentrandosi sull’impostazione generale della scuola post-Covid. Il formato dei moduli e la conferma dell’alternanza scuola lavoro fanno emergere dal documento come la funzionalizzazione del sistema di istruzione alle necessità del mondo produttivo sia ancora prevalente. Ciò è testimoniato anche dall’enfasi con cui si intendono promuovere riforme di tipo curricolare sulle discipline STEM a partire dalla scuola dell’infanzia e primaria.

Infine, per concludere la (parziale) panoramica del Recovery Plan, una nota di colore: dalle simulazioni dei servizi della Commissione stessa si evince che il piano è potenzialmente in grado di aumentare del 2,5 % il PIL dell’Italia entro il 2026.[14] Dopo un crollo del 10% in un solo anno.

Tutto questo incubo sociale, in altre parole, non viene più neanche di giustificarlo, nella “teoria” borghese utilizzata per implementarlo, attraverso la necessità di una crescita economica.

Le follie del governo Draghi sui subappalti

Una misura emblematica del corso politico del governo delle larghe intese di Draghi è sicuramente la liberalizzazione del meccanismo del subappalto, contenuta nel Decreto Semplificazioni pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 31 maggio 2021.[15]

Oltre eliminare, dal 1° Novembre 2021, il limite percentuale dei lavori subappaltabili all’interno di un appalto pubblico, infatti, la misura abroga la norma del codice degli appalti che imponeva all’affidatario in subappalto un ribasso dei prezzi non superiore al 20% rispetto ai prezzi del contratto d’appalto. La concorrenza al ribasso fatta attraverso dumping di retribuzioni e origini non chiare dei materiali vivrà una nuova stagione d’oro. Questo provvedimento, è bene sottolinearlo, è anch’esso frutto delle politiche “concorrenziali” delle istituzioni europee: è stata la Corte di giustizia europea a ritenere la vecchia norma ostativa ad una valutazione caso per caso “da parte dell’amministrazione aggiudicatrice”.

Le conseguenze dell’eliminazione del limite al subappalto, che saranno l’aumento dei fenomeni di caporalato ed elusione delle norme sul lavoro, tipico da parte di realtà imprenditoriali più estemporanee e meno controllabili, vengono implicitamente ammesse dal legislatore stesso nel corso dell’art. 49 del decreto Semplificazioni, nel quale si stabilisce che «le stazioni appaltanti, […] eventualmente avvalendosi del parere delle Prefetture competenti, indicano nei documenti di gara le prestazioni o le lavorazioni oggetto del contratto di appalto da eseguire a cura dell’aggiudicatario in ragione delle specifiche caratteristiche dell’appalto, […], tenuto conto della natura o della complessità delle prestazioni o delle lavorazioni da effettuare, di  rafforzare il controllo delle attività di cantiere e più in generale dei luoghi di lavoro e di garantire una più intensa tutela delle condizioni di lavoro e della salute e sicurezza dei lavoratori ovvero di prevenire il rischio di infiltrazioni criminali».

Dunque è chiaro che lo spezzettamento delle imprese appaltatrici porti a maggiore inefficienza nell’esecuzione di lavori complessi (nei quali occorre una centralizzazione delle procedure e un corpo di personale non improvvisato) ed un maggiore pericolo di mancanza di tutele, ma la scelta di quando ciò sia probabile è lasciata alle stazioni appaltanti (come se queste non siano egemonizzate politicamente dalle stesse forze politiche che puntano al dumping salariale).

Tutto questo pericolo sarebbe, poi, secondo il governo Draghi, scongiurato grazie alla previsione dell’impossibilità di affidare “totalmente” i lavori in subappalto e all’obbligo, da parte del subappaltatore, di mantenere gli stessi standard qualitativi previsti nel contratto e gli stessi trattamenti contrattuali, verso i lavoratori, “che avrebbe garantito l’appaltatore”.

Delle previsioni che appaiono ridicole ed ingenue, dei “wishful thinking” che non tengono conto della difficoltà a valutare tali elementi in corso d’opera e, soprattutto, dei rapporti di forze all’interno dei luoghi di lavoro, da parte degli speculatori, sia verso la forza lavoro che verso gli enti che devono supervisionare.

Ricordiamo, ancora, quanto queste previsioni siano la logica conseguenza degli indirizzi del Recovery Plan, che prevede riforme sostanziali per migliorare il contesto imprenditoriale generale e “ridurre gli ostacoli alla concorrenza.

Il governo che semplifica la vita agli speculatori

Il decreto Semplificazioni non si limita alla scellerata liberalizzazione dei subappalti. Esso semplifica molto la vita agli speculatori attraverso diversi strumenti. Sarà molto più facile ottenere affidamenti diretti, essere impuniti per omissioni ed errori negli appalti, aggirare regole. Tutto con il pretesto della semplificazione della burocrazia.

Vengono prorogate fino al 30 giugno 2023 le deroghe al Codice degli Appalti che erano state approvate nei mesi della pandemia con lo scopo di “poter intervenire con rapidità e urgenza nel pieno dell’emergenza”: tra le altre cose, viene alzato il tetto massimo sotto al quale si possono assegnare lavori pubblici senza fare gare d’appalto, ovvero con un’assegnazione diretta o con una veloce ‘procedura negoziata’, effettuata in privato tra la centrale pubblica appaltante e una cerchia ristretta di aziende: l’affidamento diretto è previsto per lavori di importo inferiore a 150.000 euro e per servizi e forniture, ivi compresi i servizi di ingegneria e architettura e l’attività di progettazione, di importo inferiore a 139.000 euro”.

Vi è poi la mega deroga a chi si macchia di danni erariali. Ricordiamo che le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 12086, del 13 giugno 2016, avevano precisato che in caso di appalto pubblico, qualora l’amministrazione utilizzi fondi comunitari, la società privata cui sono assegnati i lavori è soggetta al controllo della Corte dei conti e può essere condannata per danno erariale, per mancata o parziale esecuzione degli impegni assunti.[16]

Il nuovo decreto semplificazioni (decreto legge 31 maggio 2021, n. 77) con l’art. 57 comma 2 lett. h), ha però prorogato fino al 30 giugno 2023 le disposizioni provvisorie di cui all’art. 21 comma 2 del c.d. Decreto Semplificazioni dello scorso anno, prolungando la validità delle deroghe che mettono al riparo il padrone vincitore di un appalto, appunto, da accuse di danno erariale ed abuso d’ufficio.

In materia di responsabilità erariale, il decreto-legge 16 luglio 2020 n.76, convertito con modificazione nella legge 11 settembre 2020 n.120, il cui art. 21, secondo comma, aveva infatti previsto che: «Limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 dicembre 2021, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità di cui all’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta». Se non si dimostra il dolo c’è impunità.

Infine, nel Dl Semplificazioni raggiunge l’apice l’ipocrisia del governo riguardo la tutela dell’ambiente. Nonostante la tanto propagandata rivoluzione verde, vengono ridotti a metà i tempi concessi alle autorità preposte per realizzare la Valutazione di Impatto Ambientale, che serve per valutare se una determinata opera pubblica devasta la natura circostante o meno. Inoltre, per otto grandi opere, tra cui linee di alta velocità e interventi sulle infrastrutture portuali, si semplificano i tempi dei vari passaggi previsti, dalla valutazione del Consiglio superiore dei lavori pubblici, al parere paesaggistico preventivo alla conferenza di servizi semplificata, per evitare la burocrazia.

La politica aziendalistica del governo fondata sulla tutela del profitto e dell’impunità continua senza nessun ostacolo e polemica politica, a pieno consenso, venendo fatta passare per una sorta di modernizzazione del Paese – seppur consistente in cose che vengono, purtroppo, fatte da anni.

Il controllo politico da parte del capitale, grande e piccolo a seconda delle situazioni, attraverso il Recovery Plan europeo si materializza perfettamente nella giungla delle liberalizzazioni dei subappalti e nelle varie facilitazioni in materia di appalto, creando un contesto dove sempre di più vigerà la legge del più forte e la capacità di “flessibilizzare” la forza lavoro, a maggior ragione dopo il prevedibile sblocco dei licenziamenti decretato a inizio luglio.

I contratti a termine liberalizzati e i regali alla piccola borghesia (a nostre spese): il Sostegni-bis

Nessun media ne parla, nessuno sembra esserne toccato, eppure la liberalizzazione delle causali nei contratti a tempo determinato è stata appena convertita in legge, con la trasformazione del così detto decreto “Sostegni-bis”.[17]

Formalmente si tratta solo una deroga “fino a settembre 2022” ma una deroga che, con i rapporti di forza politici che emergono oggi, ha tutta l’aria di diventare definitiva. Nel Decreto Sostegni-Bis (conversione in legge del decreto-legge 25 maggio 2021, n. 73) compare fugacemente, infatti, la, modifica all’articolo 19 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, in materia di lavoro a tempo determinato:

«dopo il comma 1 è inserito il seguente: “1.1. Il termine di durata superiore a dodici mesi, ma comunque non eccedente ventiquattro mesi, di cui al comma 1 del presente articolo, può essere apposto ai contratti di lavoro subordinato qualora si verifichino specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di lavoro di cui all’articolo 51, ai sensi della lettera b-bis) del medesimo comma 1, fino al 30 settembre 2022”».

Cosa significa questo? Che se fino ad ora, perlomeno, per prorogare o rinnovare un contratto a tempo determinato oltre i 12 mesi senza trasformarlo in indeterminato c’era bisogno di apporre delle causali verificabili precisate dalla legge, ora le circostanze in cui ciò diviene possibile possono essere decise dalla contrattazione collettiva, ovvero – oggi come oggi – da sindacati filo-padronali e collusi, gli stessi che hanno gridato alla vittoria per lo sblocco dei licenziamenti “raccomandando, però, di usare gli ammortizzatori”. Per fortuna il limite totale dei 24 mesi vige ancora.

Questa deroga è un palese regalo servito sul piatto d’argento alle imprese che sopravvivono solo grazie alla ricattabilità dei dipendenti, venduto come “necessario” per il fatto che i soli lavori che stanno trainando la ripresa sono quelli a tempo determinato.

In altre parole, il governo filo-Confindustria di Draghi concede prevedibilmente alle imprese private tutto il potere di decidere le condizioni della ripresa, dando a chi a ha un capitale il potere di ricatto su milioni di lavoratori che dovranno scegliere: o questo o nulla.

Il decreto presenta, poi, una serie di misure che vanno tutte sulla scia della “maggiore facilità d’impresa” per tutta la classe proprietaria, il che non vuol dire altro che “maggiore libertà alla volpe nel pollaio”. Si tratta di sgravi che, in poche parole, allargano la forbice dei rapporti di forza fra capitale (grande o piccolo che sia) e lavoro. Il primo cade sempre in piedi, il secondo deve stare sempre sotto tensione e pregare mesi per qualche bonus salva-vita. Si va dall’esenzione Imu per i proprietari soggetti al blocco sfratti al termine del versamento delle imposte risultanti dalle dichiarazioni dei redditi, IRAP e IVA, in scadenza dal 30.06 e al 30.08, che slitta al 15 settembre per i contribuenti ISA.[18]

Vi è, soprattutto, l’ennesimo regalo incondizionato pagato da tutti i contribuenti: «art. 1-ter. Al fine di mitigare la crisi economica derivante dall’emergenza epidemiologica da COVID-19 alle imprese operanti nei settori del wedding, dell’intrattenimento, dell’organizzazione di feste e cerimonie e del settore dell’Hotellerie-RestaurantCatering (HORECA), sono erogati contributi a fondo perduto per un importo complessivo di 60 milioni di euro per l’anno 2021, che costituisce limite massimo di spesa. A valere sullo stanziamento di cui al primo periodo, un importo pari a 10 milioni di euro per l’anno 2021 è destinato alle imprese operanti nel settore dell’HORECA e un importo pari a 10 milioni di euro è destinato alle imprese operanti nel settore, diverso dal wedding, dell’intrattenimento e dell’organizzazione di feste e cerimonie».

Infine, l’art.19 bis della legge di conversione del decreto Sostegni bis appena approvato prevede la proroga del credito di imposta per le società benefit al 31 dicembre 2021 e l’ampliamento dei costi agevolati.

E così via, a fare da scia a un deficit aggiuntivo del 2020 che già per il 70% era tutto indirizzato alla parte padronale. Una “reazione alla crisi”, da parte del governo, che alla libertà di spostamento dei grandi capitali (che resta indiscussa nella cornice dell’Ue e che, a causa di minacce di delocalizzazioni e fughe di liquidità, rende improponibile fare investimenti pubblici sostanziosi e concreti) accompagna un insieme di favoritismi fiscali al capitale piccolo e medio per mantenere attivo un simulacro di dinamicità, il tutto pagato dall’unica e vera vittima di tutta la situazione, quella classe lavoratrice che rimborserà lo “sforzo” con maggiori tasse e minori servizi, oltre che con maggiore ricattabilità contrattuale.

Una riforma della giustizia che sacrifica l’equità per l’“efficienza”

Marta Cartabia ha recentemente affermato, riguardo alla sua riforma della giustizia che dovrebbe incassare il primo via libera di uno dei due rami del Parlamento per la fine di luglio, che «il mantenimento dello status quo non è un’opzione sul tavolo. Se la giustizia non funziona sono a rischio anche i 200 miliardi che l’Europa ci ha assegnato con il Recovery».[19] Come anticipato, i fondi europei non hanno tanto la funzione di “aiutare il Paese” (la stessa somma annuale e a debito è facilmente ottenibile tramite le classiche aste dei titoli di Stato) ma di assicurarsi che non esistano tentazioni politiche contrarie all’“efficientamento” delle istituzioni e del mercato interno europeo.

Nel caso particolare si prevede che la prescrizione si interrompa dopo la sentenza di condanna o assoluzione di primo grado mentre scatta l’improcedibilità dopo 2 anni, per i processi in Corte d’Appello, e 1 per quelli dinanzi alla Cassazione. È prevista la possibilità di un’ulteriore proroga di un anno in appello e di sei mesi in Cassazione per processi complessi relativi a reati gravi, come esempio associazione a delinquere semplice, di tipo mafioso, traffico di stupefacenti, violenza sessuale, corruzione, concussione. In generale, pur considerando l’eventuale modifica del provvedimento che escluderebbe dalla riforma i reati di mafia,[20] si punta ad una soglia più bassa di non punibilità e “fluidità” per favorire scambi e investimenti. L’accuratezza del giudizio è sacrificata e ciò è ben annunciato nel Piano presentato dal governo all’UE.

La riforma era ampiamente prevedibile leggendo le linee guida del recovery Plan. Il Pnrr si propone, infatti, nero su bianco, l’obiettivo di «rendere più efficiente il processo penale e di accelerarne i tempi di definizione».

Sono inoltre invocati, nel suo testo, «interventi tesi a garantire una più accentuata riduzione dei procedimenti», in particolare intervenendo sulla procedibilità dei reati; sulla possibilità di estinguere talune tipologie di reato mediante condotte riparatorie a tutela delle vittime; sull’ampliamento dell’applicazione dell’istituto della particolare tenuità del fatto.

Elementi previsti, in toto o in parte, dalla riforma Cartabia, che non dice il falso nelle sue dichiarazioni. Molto ci sarebbe da dire sul classismo delle norme del Codice penale attuale, che mettono sullo stesso piano un manifestante che blocca una strada per fame ed un mega evasore fiscale, ma in questo caso ciò che è chiaro è che si favorisce chi ha più potere e capacità di rallentare e inquinare i processi. I processi per le torture e la macelleria messicana della Diaz e di Bolzaneto ai tempi del G8 di Genova, oggi ricordati da tutti, sarebbero stati dichiarati improcedibili. Il probabile obiettivo è togliere dal novero dei procedimenti penali pendenti tutte quelle cause che riguardano, per lo più, reati di corruzione, concussione, bancarotta fraudolenta, evasione fiscale, contro la pubblica amministrazione, contro – genericamente – il bene comune, commessi da chi ha per definizione connessioni “potenti”.

La riforma fiscale attesa e il trionfo dello Stato-azienda

Terminiamo la carrellata dei provvedimenti presi o da prendere dal governo Draghi con dei cenni a quella che sarà la probabile riforma fiscale, che presenterà in pompa magna come un successo dell’esecutivo la riduzione allo scaglione Irpef “di mezzo” (quello che riguarda il fantomatico ceto medio, come se in esso non ci fossero soggetti in posizioni produttive e reddituali totalmente diverse), l’abolizione dell’Irap e la rateizzazione del secondo acconto delle imposte sui redditi per i titolari di partita Iva.

Si tratta in realtà di un’ipotesi di riforma che diminuisce di 40 miliardi le entrate fiscali[21] con interventi a esclusivo vantaggio delle imprese, delle rendite finanziarie e di chi percepisce un reddito superiore a quello di impiegati e operai, per non parlare di precari e piccole partite Iva.[22]

Nella revisione all’Irpef per lo scaglione dai 28.000 a 55.000 euro di reddito, le proposte politiche finora articolate non prevedono nessun aumento di progressività. Non si prevede, al contrario delle attese, nessuna riforma del catasto o ulteriori tasse sui patrimoni, mentre ci sarà una revisione al ribasso della tassa sulle rendite finanziarie ed una probabile eliminazione acconto P. Iva.

Una riforma offertista, come prevedibile, che mette al centro lo sgravare i ricchi e le imprese dal fardello fiscale e conferma la visione aziendalistica di uno Stato mega-corporation che deve solo scegliere quale parte del sistema produttivo “sacrificare” e quale favorire per essere considerato competitivo, pagare senza problemi interessi ai creditori, dividendi a soci di aziende partecipate, facilitazioni a grandi e piccole aziende e per esportare. La parte sacrificata, ovviamente, continua ad essere la qualità della vita dei lavoratori dipendenti che, oltre subire la continua corrosione dei diritti contrattuali, continuano ad essere la classe che sopporta di più il peso del fisco. Come ricorda la Cub, infatti, «nell’ambito delle recenti audizioni promosse dalle Commissioni Finanze e Tesoro della Camera e del Senato, finalizzate ad una “indagine conoscitiva sulla riforma fiscale, con riferimento in particolare all’IRPEF”, la Confindustria ha dovuto riconoscere che “i dipendenti e i pensionati insieme fanno l’87% dell’Irpef e versano l’81% del totale di questa imposta”. Ciò significa che l’Irpef riguarda la totalità dei dipendenti e dei pensionati e soltanto il 13% della restante platea di contribuenti persone fisiche. Significa anche che lavoratori e pensionati rappresentano la classe sociale che paga più tasse nel nostro paese».[23]

Da notare che l’aziendalismo fiscale confermato dei recenti governi si manifesta già anche in scelte apparentemente poco rilevanti come l’istituire un regime duale sotto i 65.000 euro di reddito annuo, tale per cui la differenza può arrivare fra il 41% di aliquota Irpef di un dipendente e il 15% di un autonomo, il che rappresenta una spinta formidabile a restringere il perimetro del lavoro subordinato in favore di quello meno regolamentato e tutelato delle false partite Iva. Questo regime potrebbe esacerbarsi con l’introduzione di una aliquota del 20% per le p. Iva sopra i 65.000 euro, per i due periodi di imposta successivi alla fine del regime agevolato.[24]

La destra ottiene dalla riforma, invece, l’abolizione dell’Irap, che da sola vale 20 miliardi, e che rischia di aprire una voragine nel finanziamento del sistema sanitario, come accennato.

Buone notizie, invece, per i rentier, visto che le rendite finanziarie, oltre venire ancora escluse esplicitamente e senza spiegazioni dal perimetro dell’Irpef e da un regime di progressività, vengono sgravate dal governo Draghi con un’aliquota che passa dal 26% al 23%.

Sulle imprese, c’è poi l’ipotesi di un ritorno dell’Iri, imposta introdotta nel 2018 e abolita ancor prima di diventare operativa. Le Commissioni raccomandano la reintroduzione dell’imposta sul reddito di impresa che garantirebbe – su base opzionale – una parità di trattamento rispetto a quanto previsto per le società di capitali.[25] Imprese individuali e società di persone in contabilità ordinaria avrebbero la possibilità di optare per l’applicazione di un’aliquota non progressiva ma proporzionale, a condizione che l’utile prodotto sia rinvestito in azienda. Con il pretesto di “incentivare gli investimenti” si restringe la progressività (e le aliquote) anche dal lato delle imprese.

Tutto questo è la degna continuazione di una miriade di provvedimenti che ha svuotato in questi anni la platea di chi è soggetto all’Irpef: regimi speciali, agevolativi, sostitutivi, tassazioni diversificate sulle rendite finanziarie ed immobiliari e potremmo continuare, a vantaggio soprattutto di chi più ha. Clamoroso, a questo proposito, il regime della cedolare secca sugli immobili locati in regime di libero mercato, denunciato in particolare da Unione Inquilini: un’imposta del 21% sostitutiva dell’IRPEF, inferiore anche a quella del 23% applicata al primo scaglione di reddito.[26]

Conclusioni

Quest’ultima ipotesi di riforma, esattamente come le antecedenti, sancisce, in definitiva, il dominio ideologico della filosofia offertista per cui l’unica cosa razionale da fare è “agevolare le imprese”. Il dibattito si divide solo su come farlo e su quali imprese puntare (se le piccole o le grandi, o entrambe), non circa la possibilità che ci siano sistemi differenti. La riforma fiscale, in particolare, punta poi ad accomunare piccoli autonomi a titolari di imprese vere e proprie, dramma culturale favorito da provvedimenti come la rateizzazione degli acconti per la P. Iva. La questione del rifiuto della patrimoniale (sulla quale vi è stato un discreto dibattito pubblico di recente) va analizzato come parte di questo confronto inter-aziendalista: sarebbe stato razionale, secondo questa filosofia, anche utilizzare il gettito proveniente dai grandi patrimoni per rimettere in moto gli investimenti e i profitti. Quello che è totalmente assente nel dibattito, sia sulla riforma fiscale che su ogni provvedimento elencato, è invece la questione dei rapporti di forza che un regime fiscale o di spesa pubblica rispecchia e la questione di chi detiene il potere in uno Stato. Il tono (e i voti) bipartisan dell’esecutivo Draghi rispecchiano un appiattimento ideologico storico ormai incancrenito, che si manifesta in campagne mediatiche imbarazzanti come la crociata degli imprenditori stagionali contro un presunto potere deterrente dei sussidi pubblici verso il lavoro e si materializza nei finanziamenti totalmente insufficienti nella sanità, nella scuola e nel resto dei servizi fondamentali e, soprattutto, nelle decine di vertenze e licenziamenti di massa seguiti immediatamente allo sblocco dei licenziamenti, necessità dichiarata dalla classe padronale al fine di ristrutturare la composizione del personale con il pretesto della crisi Covid. La narrativa secondo cui l’unica società possibile è quella in cui il capitale e i suoi capricci devono essere assecondati in ogni modo se si vuole ottenere “crescita” non trova nessun contrappeso in alcun ambiente istituzionale e si incarna sia nella cornice d’indirizzo di un piano di “ripresa” che dà un valore assoluto alla concorrenza e all’aziendalizzazione dei servizi pubblici sia nella sua esecuzione fatta di concessioni pervasive al potere di ricatto dei capitalisti, abbinate ad una erogazione di ammortizzatori e bonus per i lavoratori appena sufficiente per non dare il pretesto per l’insorgere dell’intera classe operaia. Una volontà di insorgere che comincia a farsi strada fra i settori più avanzati della classe e che cerca di cristallizzare le condizioni soggettive per la sua esplosione, essendo presenti da anni le condizioni oggettive.


[1] https://www.ilgiorno.it/milano/cronaca/sblocco-licenziamenti-esuberi-1.6631770.

[2] https://notizie.tiscali.it/politica/articoli/ddl-concorrenza-in-arrivo/.

[3] https://www.altalex.com/documents/news/2021/02/11/next-generation-eu-parlamento-europeo-approva-regole-per-ricevere-finanziamenti.

[4] http://www.dt.mef.gov.it/it/debito_pubblico/dati_statistici/scadenze_titoli_suddivise_anno/.

[5] https://www.ilsole24ore.com/art/ue-covid-pesa-politiche-bilancio-all-italia-suggerita-prudenza-AE8OmbN.

[6] https://ec.europa.eu/info/sites/default/files/com_2021_it.pdf.

[7] https://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-10160-2021-INIT/it/pdf.

[8] https://www.altalex.com/documents/news/2021/06/08/decreto-reclutamento.

[9] https://ec.europa.eu/info/sites/default/files/com_2021_it.pdf.

[10] https://www.poliorama.it/2020/12/31/la-sanita-pubblica-e-i-nodi-venuti-al-pettine-con-la-pandemia/.

[11] https://www.camera.it/temiap/documentazione/temi/pdf/1104197.pdf.

[12] https://www.federcontribuenti.it/un-quinto-della-spesa-sanitaria-nazionale-finisce-in-strutture-private-il-25-dei-posti-letto-il-59-degli-ambulatori-e-il-78-delle-strutture-sociosanitarie-del-ssn-sono-di-privati-accreditati/.

[13] https://www.orizzontedocenti.it/2021/04/23/107-424-posti-da-coprire-per-le-immissioni-in-ruolo-202122-distribuzione-per-regione-tabella/.

[14] http://documenti.camera.it/leg18/dossier/pdf/AT051.pdf?_1625138251816#:~:text=In%20particolare%2C%20dalle%20simulazioni%20dei,dell’1%2C1%25.

[15] https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2021/05/31/21G00087/sg.

[16] https://www.giurdanella.it/2016/07/condanna-per-danno-erariale-per-lesecutore-di-un-appalto-con-finanziamenti-europei/#:~:text=12086%2C%20del%2013%20giugno%202016,o%20parziale%20esecuzione%20degli%20impegni.

[17] https://www.lavoro.gov.it/notizie/Pagine/Convertito-in-Legge-il-D-L-25-maggio-2021-n-73-Decreto-Sostegni-bis.aspx.

[18] https://www.leonardocalamassi-follonica.it/soggetti-isa-e-forfettari-proroga-versamenti-imposte-al-15-settembre/#:~:text=Per%20i%20contribuenti%20ISA%20slitta,dal%2030.06%20al%2031.08.2021.

[19] https://www.youtube.com/watch?v=yEOsoc5bIs0.

[20] https://www.huffingtonpost.it/entry/dossier-giustizia-oggi-in-cdm-fisco-e-concorrenza-a-settembre_it_61027c30e4b0d3b5897a95eb?utm_hp_ref=it-homepage.

[21] https://ilmanifesto.it/riforma-fiscale-per-adesso-vince-la-destra/.

[22] https://www.ilsole24ore.com/art/dall-iva-all-irap-ecco-misure-che-entreranno-delega-fiscale-AEeXsqY.

[23] https://www.cub.it/index.php/96-organizzazioni-cub/cub-pubblico-impiego/14436-l-ingiustizia-fiscale-in-italia.

[24] https://www.informazionefiscale.it/regime-forfettario-20-per-cento-sopra-65-000-euro-novita-riforma-fiscale-2021

[25] https://tg24.sky.it/economia/2021/07/04/riforma-fisco-irpef-irap.

[26] https://www.cub.it/images/2021-articoli/21-02-ing-fiscale-2021.pdf.

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