OMOTRANSFOBIA, MERITOCRAZIA SOCIALE E MERITOCRAZIA “NATURALE”

OMOTRANSFOBIA, MERITOCRAZIA SOCIALE E MERITOCRAZIA “NATURALE”

I motivi della bocciatura del disegno di legge contro l’omotransfobia? Che non esiste in parlamento un partito che non sia velatamente schiavo o di relazioni di potere da mantenere con escamotage vari o, peggio, di una concezione di diritto e “natura” ASTRATTE e inutili. L’unico motivo “di merito” per non approvare il Ddl Zan sta in questo, senza girarci troppo attorno.

È evidente, dall’esistenza di franchi tiratori anche in formazioni che si propagandano come “progressiste”, che neanche questi partiti hanno saputo (ma è triviale dirlo) fondarsi sul principio di massima giustizia ed emancipazione che recita AD OGNUNO SECONDO I PROPRI BISOGNI, DA OGNUNO SECONDO LE PROPRIE POSSIBILITÀ. Un principio che indica una prassi sempre perfettibile e mai statica e che, soprattutto, elimina definitivamente dal panorama l’individualismo egoistico e il richiamo a qualsiasi dogma o regola idealizzata. In effetti, la massima comunista non si applica solo all’economia ma è indica una prassi etica per la quale bisogna continuamente pianificare organicamente come soddisfare al massimo i desideri di ognuno minimizzando la sofferenza di tutti.Questa discussione è impossibile da fare oggi riguardo alla discriminazione di genere e di orientamento sessuale proprio perché il dibattito è schiavo di una visione soggettivistica e individualista che vede i diritti come una pretesa di singoli scollati dal contesto. Anche per questo, di riflesso, la decisione su come votare in questi casi è affidata alla “coscienza” individuale dei singoli parlamentari, il che è in contraddizione con l’idea stessa di un partito che lotta per l’applicazione di un principio solidaristico ed etico.

Il Ddl Zan, infatti, è oggi il frutto politico di una classe dirigente che cerca di giustificare ancora la sua esistenza con il richiamo a quelli che oggi sono gli unici diritti sociali (esatto, perché tutti lo sono, anche se interpretati come individuali) accettati dalle classi capitaliste dominanti – per il semplice fatto che non ostacolano i loro interessi meramente economici e di potere. È figlio non di una filosofia politica dialettica e scientifica ma di una filosofia individualistica, che vede solo il concetto astratto di “diritto individuale” e lo vede come il fine ultimo della politica, fino a trasformare esso nel suo opposto, in una società dove esisterebbero soltanto una miriade di “contratti” bilaterali dove viene celato il rapporto di forza reciproco che li determina e le esternalità che li rende sociali.Questo stato di cose deve portarci a prendere posizione circa questi temi non da questo punto di vista classista e liberale ma da quello organico, dialettico e rivoluzionario. Perché la discriminazione sociale di genere e sull’orientamento sessuale proviene concettualmente dagli stessi pregiudizi filosofici che sono alla base dell’accettazione pacifica del CAPITALISMO, visto come sistema “inevitabile”.

Entrambe le condizioni (il capitalismo e le discriminazioni di genere o di orientamento sessuale), infatti, sono accettate per via del presupposto filosofico che i ruoli sociali siano giustificati “naturalmente”, per un certo “merito sociale”, e si trascura il fatto che siano frutto di una evoluzione dialettica della società e dei rapporti di forza (che esistono, in fondo, anche nell’evoluzione “naturale”).Ormai anche la famiglia tradizionale è giustificata paradossalmente come più ‘adeguata’ all’armonia e la riproduzione, con alcuni ambienti cattolici che riesumano persino un certo darwinismo sociale. Lo scambio di mercato, che giustifica il “contratto” alla pari tra due parti considerandolo giusto senza metterlo nella cornice dell’anarchia informativa del mercato stesso e delle differenze di classe pregresse, ha così la stessa radice concettuale dell’identità di genere considerata “giusta” senza metterla nella cornice dell’evoluzione umana contingente. Se si prende in considerazione questa cornice, è chiaro invece che i ruoli e le identità sociali non siano NORMATIVI ma da trasformare secondo una pianificazione scientifica collettiva che mira al massimo benessere per tutti e non al mantenimento dogmatico delle identità (nazionali, sociali, sessuali).Per rispondere a chi, utilizzando la retrograda mentalità identitaria, obietta che un ragionamento del genere sopprimerebbe le “identità”, basta fare notare che le “identità” le sta eliminando proprio chi nega l’esistenza di varietà nelle attitudini di genere e sessuali (o chi nega l’esistenza di classi sociali con interessi condivisi) visto che il fatto che esistano identità soggettive differenti da quelle di “uomo” e “donna” o di “individuo capace di atti meritocratici” è, appunto, un FATTO, che non decidono certo i comunisti.

Ancora più riduzionista è, poi, ricondurre il concetto di matrimonio (un concetto culturale, non biologico) alla sola procreazione: neanche il più materialista dei riduzionisti direbbe una cosa del genere (e pensare che “materialisti” dovrebbero essere i marxisti). Premesso che il matrimonio tradizionale non è, e non è mai stata, l’unica modalità sociale di procreazione e di educazione della prole, inoltre, non appare in alcun modo razionale mettere il valore di una relazione o di una identità in funzione della capacità procreativa: esistono milioni di persone che non vogliono avere figli e non ci sogneremmo mai di considerarli contro natura.

Infine, uno dei temi di dibattito riguardo la legge è il suo presunto ostacolo alla libertà di espressione. Ma, per fortuna, la libertà di espressione non è mai stata un valore ASSOLUTO, altrimenti sarebbe lecita l’istigazione a delinquere, la calunnia e il mobbing. La discriminazione verbale di certi soggetti forse non provoca gli stessi effetti deleteri di questi reati (forse..), ma certamente provoca disagi sociali a delle persone.

Dobbiamo imparare a ragionare in maniera organica, prendendo lo sviluppo naturale/sociale per quello che è (uno sviluppo non teleologico ma contingente) e, soprattutto, rigettando il falso e ingannevole concetto di meritocrazia sociale con la quale vengono giustificati moralmente degli stati di cose solo per il fatto di esistere o essere “più diffusi”. Cosa che accomuna la legittimazione di ogni proprietà, di ogni scambio “tra pari” e di ogni categoria culturale sessuale prevalente.

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