Governo, sindacati e imprese hanno firmato un avviso comune che impegna le aziende ad utilizzare gli ammortizzatori sociali prima di procedere ai licenziamenti. “Si impegnano a raccomandare l’utilizzo degli ammortizzatori sociali”. Rileggiamo “si impegnano a raccomandare”. Come scrive A. Mustillo, di fronte alla crisi economica più profonda dal dopoguerra ad oggi, di fronte a un governo che sblocca i licenziamenti, operai caricati da camion nei presidi sindacali feriti o addirittura uccisi, le dirigenze di CGIL CISL UIL al posto di mobilitare i lavoratori e convocare uno sciopero generale ottengono uno storico “impegno a raccomandare”. Una roba da scendiletto, da maggiordomi dei padroni. Indegno che possano ancora definirsi “sindacati”.
La normalità nel sistema economico capitalista, nei momenti di crisi causati dalla disarmonia e dalla caduta del saggio di profitto di questo stesso sistema, è OVVIAMENTE scaricare il peso dei sacrifici sulla forza lavoro da parte di chi possiede un patrimonio. Un sistema diametralmente opposto sarebbe quello formato da (vere) cooperative coordinate dal potere pubblico popolare, in cui la pianificazione centralizzata e il monopolio pubblico del credito permetterebbe la costruzione scientifica della crescita economica e dell’occupazione.
Un sistema che sta in mezzo coincide con l’esistenza di cooperative gestite democraticamente dai lavoratori costrette a sopravvivere in un contesto capitalistico le quali, invece di puntare al massimo profitto anche in tempi di crisi, reagiscono moderando in modo equo i proventi e, soprattutto, assicurando nel lungo periodo LA STABILITÀ del socio lavoratore.
Un caso esemplare è stato, dopo la crisi finanziaria del 2007, la cooperativa spagnola di Mondragon, molto nota agli studiosi del tema. Attualmente primo gruppo industriale e finanziario del Paese basco e quinto dello Stato spagnolo, riunisce 110 cooperative e 80.000 lavoratori. In realtà un sistema di cooperative, si tratta di un caso interessante di cooperativa di successo estesa quanto un distretto industriale, gestita realmente dalle assemblee dei soci i quali decidono qualsiasi politica di investimento e di distribuzione. Non mancano le contraddizioni: Mondragon oltre ad avere soci lavoratori ha anche dipendenti e filiali estere gestita in maniera non cooperativistica. Le pressioni competitive della cornice economica evidentemente si fanno sentire.
E tuttavia, Mondragon pur non garantendo formalmente l’impiego a vita, adotta una strategia atta a preservare il più possibile i posti di lavoro, che consiste nel mantenere il livello di output riducendo i salari ed i ristorni dei soci; se tali misure non sono sufficienti, si tanta di ricollocare i soci lavoratori in esubero presso altre imprese del gruppo. Ciò rende il posto di lavoro sostanzialmente garantito per i soci (anche se, purtroppo, non vi sono le stesse tutele né per i soci temporanei né per i dipendenti). Già nelle crisi dei primi anni, nelle cooperative di Mondragón le perdite di posti di lavoro erano più contenute rispetto alle imprese circostanti (Bradley e Gelb, 1983); ad oggi, nessun socio delle cooperative di Mondragon ha mai perso il proprio lavoro. Quando una cooperativa si trova nella necessità di ridurre il personale, i lavoratori in esubero, se soci, vengono ricollocati presso altre cooperative del gruppo che invece necessitano di ulteriore forza lavoro. Il ricollocamento dei lavoratori può essere temporaneo o, più raramente, diventare definitivo e solitamente avviene tra imprese appartenenti alla stessa divisione o alla stessa zona geografica. Ai soci viene garantito il posto di lavoro, ma non una particolare mansione e non in una particolare impresa. Se non è possibile ricollocare il lavoratore, vengono attivati i programmi previdenziali di Lagun Aro, finanziati dalle stesse cooperative. Questi istituti sembrano avere effetti positivi sull’occupazione dentro Mondragon, che nel triennio 2007-2009 è diminuita del 9,3 per cento, mentre in Spagna e nei Paesi Baschi si è ridotta rispettivamente del 20 e del 12 per cento. Lo stesso modello, va da sé, lo si sta usando durante la crisi Covid.
Dobbiamo descrivere questi esempi migliorativi per dimostrare che la qualità della vita aumenta solo dove chi vive del proprio lavoro è capace di prendere in mano la situazione, ricordando però che il nostro compito storico è abbattere completamente il sistema individualistico e disfunzionale di oggi, in cui il più forte schiaccia il più debole per sopravvivere, per crearne uno in cui il lavoro dignitoso è assicurato dal possesso pubblico dei mezzi di produzione (industriali e del credito) e da un sistema di istruzione e di formazione realmente accessibile a tutti.
Anche di questa settimana il via libera della Commissione Ue al Pnrr italiano per accedere al Recovery Fund.
Un piano che, dati alla mano, stanzia a debito tramite la Commissione, ogni anno, risorse sostitutive del classico debito pubblico contratto con i titoli di Stato (circa 30 miliardi all’anno, un nonnulla) al fine di controllare con un apparato più forte e rigido l’utilizzo filo-aziendalistico di tali risorse.
Continua, perciò, la logica della SPESA PER I PADRONI, DEBITO PER TUTTI.
Innanzitutto, si chiarisce subito nella proposta di esecuzione del Consiglio dell’UE che il piano non esce dalla cornice dei vincoli di spesa pubblica, vincoli necessari ad evitare qualsiasi tentazione di spese sociali eccessive, aumento delle retribuzioni e aumento dell’inflazione che temono tanto i grandi capitali privati:
«ci si attende che le riforme e gli investimenti inclusi nel piano contribuiscano alla sostenibilità delle finanze pubbliche, accrescano la resilienza del settore sanitario, aumentino l’efficacia delle politiche attive del mercato del lavoro».
Politica confermata poco dopo tramite il sempreverde richiamo alla spending review:
«si tratta di misure tese a migliorare l’efficienza della spesa pubblica attraverso un quadro rafforzato di revisione della spesa e il completamento della riforma delle relazioni in materia di bilancio tra i diversi livelli amministrativi».
Passando oltre la cornice legislativa dei nuovi concorsi pubblici cuciti su misura per chi ha soldi per comprarsi titoli a non finire e che prevedono nuovi posti solo a tempo determinato, il passaggio più esplicito dell’aziendalismo del piano si ha quando si parla proprio di lavoro e imprese:
«il piano prevede riforme sostanziali per migliorare il contesto imprenditoriale generale e ridurre gli ostacoli alla concorrenza. Ci si aspetta che l’adozione di una nuova legge annuale sulla concorrenza 2021 riduca i tempi per l’avvio di un’attività in Italia e aumenti i processi competitivi per l’aggiudicazione dei contratti di servizi pubblici locali, in particolare per quanto riguarda la gestione dei rifiuti, i trasporti (porti, ferrovie regionali e trasporto pubblico locale) e le concessioni (autostrade, stazioni di ricarica per la mobilità elettrica ed energia idroelettrica). La legislazione settoriale nel campo dell’energia elimina gradualmente i prezzi regolamentati dell’energia elettrica e contempla misure di accompagnamento volte a sostenere l’aumento della concorrenza nei mercati al dettaglio dell’energia e la diffusione di contatori intelligenti di seconda generazione. La revisione della legislazione in materia di appalti pubblici comprende regolamenti volti a ridurre il tempo che intercorre tra la pubblicazione dei contratti e la loro aggiudicazione».
Nonostante anni di fallimenti in tema di privatizzazioni e liberalizzazioni di servizi pubblici fondamentali, si prosegue dunque sulla strada della massimizzazione della “competizione”, della facilitazione delle concessioni e dell’aggiudicazione dei contratti, e della liberalizzazione assoluta dei prezzi dell’energia.
L’unico passaggio degno di nota sul tema lavoro, d’altronde, tratta non di diritti e piena occupazione ma di intermediazione e facilitazioni alle imprese (seppur “rosa”): «il Governo investe nello sviluppo dei centri per l’impiego e nell’imprenditorialità femminile, con la creazione di un nuovo Fondo Impresa Donna».
Alla luce di tutto questo, le velleità di rinnovamento digitale, ecologico e infrastrutturale del Paese appaiono, anche alla luce della scarsità di risorse, per ciò che sono: un mero lubrificante pagato con soldi pubblici per accudire la ristrutturazione e il buon funzionamento della profittabilità di chi detiene già un capitale da far fruttare.
Infine, una nota di colore: dalle simulazioni dei servizi della Commissione stessa si evince che il piano è potenzialmente in grado di aumentare del 2,5 % il PIL dell’Italia entro il 2026. Dopo un crollo del 10% in un solo anno.
Tutto questo incubo sociale, in altre parole, non si sforzano più neanche di giustificarlo attraverso la necessità della “crescita economica”.