Il tema della settimana: il blocco/sblocco dei licenziamenti.
Un tema che ha a che fare più con i rapporti di forza tra capitalisti e lavoratori che con “l’efficienza” o il calcolo asettico degli eventuali disoccupati.
La misura, infatti, non ha sospeso altri tipi di licenziamento, come quelli disciplinari, quelli relativi ai dirigenti, nonché le risoluzioni del contratto di apprendistato e le procedure di licenziamento collettivo definite prima del 23 febbraio 2020. Da agosto 2020 alcuni vincoli sono stati rimossi per le imprese che cessano l’attività.
Senza parlare del fatto che la Cassa Integrazione Guadagni ha permesso banalmente, da più di un anno, alle imprese di scaricare sulla collettività i costi dei mancati licenziamenti e che il blocco non ha influito, evidentemente, sui 900.000 occupati in meno, sulle lavoratrici e sui lavoratori che hanno perso il posto durante la crisi Covid perché inquadrate con contratti a tempo determinati, stagionali o atipici di altre tipologie.
Confrontando il flusso di licenziamenti con quelli registrati nel 2019 è possibile quantificare il numero di licenziamenti che si sarebbero verificati anche senza la pandemia e che verosimilmente si manifesteranno progressivamente alla rimozione del blocco: a questi si aggiungeranno quelli riconducibili alla riduzione dell’attività economica causata dalla crisi (stimabili in circa 200.000 nelle imprese del settore privato non agricolo; cfr. Banca d’Italia, Bollettino economico, 2, 2021).
Si parla di stime che vanno da 150.000 a mezzo milione di cessazioni, ma come accennato non è tanto il mero dato numerico il punto.
Il punto è che tutte le istanze politiche provenienti dagli ambienti borghesi (grandi o piccoli che siano) non hanno fatto altro che ricalcare le richieste classiche della classe capitalista in risposta alle crisi cicliche del sistema, ovvero sussidi, esenzioni fiscali pagate dalla collettività, liberalizzazioni e maggiore flessibilità dei contratti di lavoro. Ottenendoli. E ora, prevedibilmente, vedono la maggiore possibilità di licenziare come un toccasana per scaricare ulteriormente i costi della crisi sul lavoratore, incrementando al massimo il potere negoziale su di esso.
Non vedrete mai i piccoli e grandi imprenditori chiedere, per uscire dalla crisi, un piano di investimenti pubblico e un piano di assunzioni nei servizi pubblici o nella sanità. Perché? Perché questo comporterebbe
– Un aumento del potere negoziale dei lavoratori conseguente alle tante assunzioni pubbliche, una diminuzione di importanza dell’impresa privata
– La necessità di un controllo pubblico sui capitali privati, per canalizzare la liquidità dispersa in speculazione finanziaria e rendite di vario genere (oltre che in partecipazioni azionarie utili solo a pochi) nell’investimento pubblico per l’interesse collettivo. E tra tali capitali privati ci sono quelli dei grandi e dei piccoli imprenditori.
L’illusione degli interclassisti di fondare una o più forze politiche sull’unità degli italiani contro i “colonizzatori” esteri crolla nel momento in cui diventa palese che la piccola borghesia individualista non ha alcun interesse a rischiare di perdere rendite e posizioni di forza IMMEDIATE che le assicurano un piccolo malloppo al fine di obiettivi a lungo termine e che facciano l’interesse di tutti.
Il sogno dei vari Rizzo, Paragone, e di alcuni residui grillini svanisce nel momento in cui diviene evidente che tra i maggiori responsabili delle morti sul lavoro ci sono Pmi.
Solo chi non ha un patrimonio da cui esercitare potere può salvare la società.