IL NUOVO GOVERNO E LA RIPRESA CHE (NON) SARÀ

IL NUOVO GOVERNO E LA RIPRESA CHE (NON) SARÀ

L’Istat ha comunicato ieri che nel 2020 il surplus commerciale Italiano è stato pari a 63,5 miliardi (erano 56 miliardi nel 2019). Nuovo record storico, in pieno anno di lockdown (!!!) segno che viviamo ben al di sotto delle nostre possibilità. Contando che ogni anno l’andazzo è stato questo e che, per anni, abbiamo fatto un avanzo primario di circa 30 miliardi, ciò significa che ogni anno l’economia Italiana solo grazie all’export ha avuto una “espansione” di liquidità di 20-30 miliardi. Eppure…. Consumi sempre stagnanti, salari sempre in calo, investimenti sempre fermi e crescita sempre asfittica.

Non ci vuole molto a comprenderlo: si tratta di guadagni ottenuti dall’estero con i sudore dei dipendenti e rinchiusi nelle casse dei proprietari delle imprese. Che li usano al massimo per metterli a rendita in qualche titolo, nel debito pubblico oltre che, ovviamente, per alzare la qualità della loro vita. Non sorprendetevi se la poniamo sempre in questo modo. L’Italia è da anni un campo di lavoro a basso costo e a bassi diritti per fare guadagnare pochi capitalisti ed esportatori. Tutti noi lavoriamo e viviamo AL DI SOTTO delle nostre possibilità.

Draghi, ora, ha parlato di una ripartenza che l’Italia dovrà avere come nel “periodo post-bellico”. Ma la cosa interessante è che, come abbiamo visto, dei tre fattori responsabili del boom economico del dopoguerra, oggi ne abbiamo solo uno e (guarda caso) il più deleterio per le classi popolari.

In effetti il boom, sebbene fenomeno di progresso collettivo, fu caratterizzato da grossi discrepanze sociali e repressioni salariali che resero “facile” produrre (e queste oggi ci sono) ma gli squilibri da esse derivanti furono smussati da un grande intervento economico statale (e questo non lo possiamo avere dentro l’Ue).

Le tre colonne portanti sulle quali si sviluppò l’espansione industriale del paese furono:

• 1) La grande disponibilità di manodopera a basso costo proveniente dal settore agricolo;

• 2) La situazione internazionale favorevole allo sviluppo di un formidabile settore manifatturiero delle esportazioni italiane;

• 3) L’intervento statale con grandi investimenti per lo sviluppo delle industrie e delle infrastrutture nazionali, finanziato con deficit resi possibili da un sistema bancario pubblico;

Il primo punto risulta la causa principale del rapporto tra bassi salari e alta produttività esistente negli anni ’50. La manodopera “nuova entrata” nel sistema produttivo industriale da una parte compensava la mancanza qualitativa di abilità specializzate con un’offerta quantitativa di ore di lavoro a basso costo, dall’altra presentava basse percentuali di sindacalizzazione che permisero agli imprenditori di mantenere gli incrementi salariali decisamente al di sotto degli incrementi di produttività del ventennio post bellico. Questo dovrebbe fare anche riflettere la frangia dei “sovranisti” che prendono a modello i primi 30 anni di Repubblica.

Ma punto fondamentale per comprendere il successo del miracolo economico italiano fu l’intervento dello Stato nel complesso delle grandi industrie partecipate nazionali attraverso l’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale. L’IRI, che era stata istituita nel 1933, nel dopoguerra si assunse il compito di progettare e sviluppare le infrastrutture e l’industria pesante necessarie all’industrializzazione e modernizzazione del paese. L’IRI rappresentò un esempio di partecipazione statale e di imprese private che riuscì tramite grandi investimenti a lungo termine a sviluppare quei settori strategici dell’economia che le singole imprese private non sarebbero mai riuscite a sviluppare.

L’Istituto per la Ricostruzione Industriale si estese a 360 gradi sviluppandosi nei più disparati settori economici del paese:

• Siderurgia (Finsider); • Energia (Finelettrica); • Meccanica (Finmeccanica); • Cantieristica (Fincantieri); • Costruzioni (Italstat); • Telecomunicazioni(STET); • Trasporti marittimi (Finmare); • Trasporto aereo (Alitalia); • Trasporto stradale (Autostrade); • Alimentare (SME); • Tele radiodiffusione (RAI);

Nel giro di pochi anni l’IRI divenne, sommando tutte le proprie attività, la più grande impresa italiana e addirittura il più grande gruppo di imprese industriali al di fuori delle corporations statunitensi. Essa arrivò a comprendere più di 1000 imprese e oltre mezzo milione di lavoratori. Durante gli anni ’50 e ’60 dunque la cosiddetta formula IRI fu uno degli indiscussi protagonisti del miracolo economico italiano, tanto da venire internazionalmente riconosciuta come efficace metodo di “collaborazione” tra Stato e aziende private.

Sul piano sindacale l’IRI introdusse un gruppo di dirigenti industriali legati alle correnti sociali della Democrazia Cristiana che si dimostrarono disposti al dialogo e alla contrattazione con i rappresentanti dei lavoratori entrando in collisione con la visione repressiva e reazionaria dei rapporti industriali di Confindustria. La stessa figura di Enrico Mattei a capo dell’ENI, Ente Nazionale Idrocarburi, dimostrò rivoluzionarie doti di apertura e dialogo con la classe lavoratrice.

Un apparato sempre al servizio dell’accumulazione padronale e del quale la classe lavoratrice otteneva la fetta più piccola, ma comunque un intelligente strumento dirigista che toglieva le castagne dal fuoco al mercato e alla sua anarchia.

Oggi non abbiamo neanche questo e non possiamo averlo e, anzi, fu Draghi stesso a contribuire a smantellarlo. È rimasta la visione repressiva e reazionaria di Confindustria, mentre manca quella meno miope di politici che, sebbene collusi con la grande imprenditoria, sapevano che dovevano fare partecipare un minimo alle conquiste chi vive del proprio lavoro, pena tensioni e squilibri che avrebbero compromesso la crescita stessa.

Oggi invece ci sarà appunto solo questo, con una manodopera a basso costo pubblicizzata come volano di ripresa.

Senza un sistema alternativo al capitalismo al quale puntare per “minacciare” il padronato, come nel dopoguerra.

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