LA PROPRIETÀ, LE TASSE, BERGOGLIO: LE CONSEGUENZE DELLA PATRIMONIALE FRA PRESUNTE FUGHE DI INVESTITORI E REVISIONISMO DELLA MORALE CATTOLICA

LA PROPRIETÀ, LE TASSE, BERGOGLIO: LE CONSEGUENZE DELLA PATRIMONIALE FRA PRESUNTE FUGHE DI INVESTITORI E REVISIONISMO DELLA MORALE CATTOLICA

Negli ultimi giorni si è riacceso il dibattito su quello che è il tradizionale spauracchio non solo della classe borghese ma dei moderati in generale: la tassa patrimoniale, proposta in una versione “soft” dall’esponente di Liberi e Uguali Nicola Fratoianni e sostenuta addirittura da qualche membro del Pd come Orfini.

C’è bisogno di mettere subito le carte in tavola: appare quasi offensivo nei confronti della classe lavoratrice che, in questi anni, ha sofferto per i tagli alla spesa pubblica imposti dai vincoli europei vendere anche solo come “progressista” un prelievo dello 0,2% ai patrimoni maggiori di mezzo milione di euro. Si sta, infatti, parlando di famiglie che, non si capisce se per coincidenza o per deliberata volontà politica, corrispondono al 10% più ricco della popolazione italiana secondo stime di Bankitalia risalenti al 2014, le quali fanno partire questa soglia dai patrimoni corrispondenti a 497.000 euro[1].

Che ci sia bisogno di una urgente redistribuzione del carico fiscale è una consapevolezza diffusa ormai negli ambienti più disparati. Persino l’ex ministro Vincenzo Visco qualche giorno fa è arrivato a dichiarare la necessità di una tassa sulle grandi ricchezze mostrando come, sebbene i redditi da lavoro oggi corrispondano al 47% del Pil e, invece, profitti, interessi, royalities, rendite al 53% del Pil, sui primi gravi il 18% del Pil stesso in imposizione fiscale e sui secondi soltanto il 6%. Se addirittura un ex componente di uno dei governi più reazionari dell’Italia recente giunge ad ammettere l’iniquità del sistema di tassazione attuale possiamo solo immaginare le reali implicazioni dello status quo odierno.

Spesso si obietta alla patrimoniale da ambienti sovranisti, sostenendo che essa coinciderebbe col prendere soldi “dalle tasche degli italiani” mentre i rentier e gli speculatori che hanno fatto deprimere la “nostra economia” sono all’estero. Ma a chi continua a interpretare l’Italia, semplicemente, come “una colonia” dell’Europa centrale sostenendo che “tutti” abbiamo perso qualcosa dal vincolo esterno della moneta unica e dalle politiche di austerità, sarebbe opportuno fare osservare il grafico Oxfam sottostante. Soprattutto dall’inizio della concorrenza al ribasso del mercato italiano con i capitalisti tedeschi dopo le note riforme Hartz del 2003-2004 (che inventarono i working poor in Germania) e dalle politiche di Monti del 2012 che affossarono lavoratori e piccolissime attività a favore di grossi poli finanziari e multinazionali, la quota di ricchezza sul Pil detenuta dal 10% più ricco (quello che sarebbe tassato dalla patrimoniale) è aumentata, fino ad arrivare al 56% nel 2016 (a fronte di un 8% di ricchezza detenuto dalla metà più povera della popolazione).

C’è dunque una parte degli italiani, coincidente con la classe padronale più benestante, che ha avuto vantaggi dalla giungla del mercato unico delle merci e dei capitali e dalle politiche di austerità. Ciò dovrebbe condurre all’opportunità di imporre, al fine di dare ossigeno immediato alle fasce basse con aumento dei salari ed investimenti pubblici, una patrimoniale non dello 0,2% ma persino del 10% o di un’aliquota progressiva che arrivi a percentuali altissime quando si parla dello 0,01% più ricco della cittadinanza. Si parla degli stessi nuclei familiari che oggi detengono la maggior parte del debito pubblico italiano, tra l’altro. Chi contesta la misura sostiene anche che “i ricchi porterebbero i capitali all’estero”. Questo, innanzitutto, è totalmente indifferente ad una patrimoniale: un governo può tassare un cittadino a seconda della ricchezza dell’anno precedente e mantenere come unico requisito per l’imposizione la residenza italiana. Ciò non equivale ad affermare, ovviamente, che il controllo pubblico sulla circolazione dei capitali (come anche la gestione pubblica della Banca Centrale) non sia fondamentale per far funzionare un sistema finanziario equo: equivale piuttosto a dire che non è fondamentale che sia implementato insieme alla patrimoniale in un momento di emergenza economica.

Le critiche più serie, in questo senso, obiettano invece che finché vige lo scellerato sistema capitalista, con l’imposizione di una patrimoniale i ricchi userebbero il ricatto di “non investire” più in Italia. Ad analizzare i dati non si perderebbe molto, tuttavia. Soprattutto se il ricavato sarà usato per investimenti pubblici.

Un’indagine di Bankitalia e Istat del 2019 ha stimato in 4.374 miliardi di euro il totale delle attività finanziarie degli Italiani,[2] con 1.347 miliardi che sono appannaggio del 5% più ricco delle famiglie. Il dato clamoroso è, però, che a fronte di queste cifre gigantesche l’ammontare di investimenti pubblici e privati annuo in Italia ristagna al 18% del Pil (circa 315 miliardi) con un Pil, nel 2018 stimato in 1754 miliardi di euro. Parliamo, dunque, di ricchezze liquide che circolano e sono messe a frutto attraverso interessi, guadagni su strumenti derivati e dividendi e sono parzialmente reinvestite ogni anno nella finanza. Si legge inoltre nel rapporto di Bankitalia che solo nell’ultimo anno di analisi c’è stato un aumento delle attività finanziarie pari a 156 miliardi di euro, +3,7%.

Di quali investimenti si parla, dunque, quando si discute di fughe dei grossi capitali? Di investimenti per la classe lavoratrice, per i servizi pubblici e per il reddito garantito durante le crisi, o di speculazioni finanziarie e bolle azionarie? Ricavando nell’immediato 400 miliardi, ora fossilizzati nelle Borse, con una patrimoniale del 10% sul 10% più ricco, si potrebbe aumentare il Pil di 480 miliardi solo il primo anno. E tutto a favore delle fasce lavoratrici, se si creano le condizioni politiche per tale scelta. Con questa ipotesi si salverebbero immediatamente dalla disperazione milioni di persone e giovani senza prospettive – non escludendo di aggredire il sistema finanziario successivamente.

Le stime appena illustrate sono tratte da uno studio recente di Mediobanca (Mediobanca Securities Report, 17 novembre 2015, p. 58 – Nicolo Pessina/Sara Piccinini/Carlo Signani/Carlo Cattaneo), il quale calcola per difetto un moltiplicatore fiscale di 1,2 per l’espansione monetaria in investimenti pubblici, sussidi contro la povertà, salari. Si può perfino ipotizzare che se investito in innovazione, formazione e ricerca, un tale ammontare può perfino attenuare il gap competitivo con i concorrenti commerciali e minimizzare le perdite nella bilancia commerciale che inevitabilmente ci saranno con un’espansione dei consumi molto veloce in un contesto di libero mercato. Ciò, è bene ribadirlo ancora per evitare fraintendimenti, non equivale ad affermare che l’uscita dall’UE non sia fondamentale, a meno che non si voglia credere che possa esistere mai un mercato unico perfettamente equilibrato e che si possa controllare il dumping salariale restando dentro la cornice capitalista.

Come appendice a questa discussione tecnica sull’opportunità di una patrimoniale sul 10% più ricco, è bene focalizzarci sulla voce “culturale” che, paradossalmente, sembra più di tutte egemonizzare il discorso politico dei settori favorevoli alla redistribuzione della ricchezza attraverso la rottura del dogma borghese del diritto alla proprietà. È bene, infatti, mettere in luce i limiti di concezioni che, apparentemente, possono sembrare riscoprire un certo progressivismo dopo secoli di demonizzazione delle istanze operaie in nome della pace sociale.

Papa Bergoglio scopre in questi giorni, infatti, che la proprietà privata non può essere intoccabile se vuoi essere “solidarista”. Papa Francesco lancia questo messaggio ai giudici di America e Africa che si occupano di diritti sociali in una riflessione in cui chiede di costruire una “nuova giustizia sociale partendo dal presupposto che la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto e intoccabile il diritto alla proprietà privata”.

Al di là degli entusiasmi che questa posizione può generare, è bene chiarire come la filosofia cattolica, o catto-comunista, dell’uguaglianza rimarrà sempre monca nei confronti delle istanze rivoluzionarie e ciò avviene per la concezione stessa della morale cristiana, ovviamente.

Il problema sta, soprattutto, nel dogma del “porgere l’altra guancia” che non significa, è vero, come sostengono le interpretazioni semplicistiche, “sottomettersi”, bensì “richiedere uguaglianza e stessa dignità di trattamento” (dover colpire l’avversario non più col dorso della mano nella simbologia ebraica del tempo vuol dire riconoscerne la stessa levatura). Il punto dirimente è che non basta chiedere l’equità nella ricchezza – men che meno “mostrare” che con la non-violenza si può mettere in equilibrio il mondo. La Chiesa parte dal presupposto che il raggiungimento dell’uguaglianza sostanziale sia il frutto di un cambiamento morale del “peccatore” messo in atto, magari, grazie alla predica e le buone azioni del giusto. Per questo in politica, nell’affrontare i problemi sociali, si è dimostrata (nei periodi in cui non è stata repressiva) sempre interclassista e concertativa.

Sfugge, però, un elemento fondamentale, che ricordiamo attraverso le nozioni di base del materialismo storico marxista: gli interessi degli uomini sono legati alla loro posizione materiale nella riproduzione della vita e delle risorse e, nella maggior parte dei casi, la costruzione morale di questi uomini è plasmata per giustificare tali interessi. Essi non li abbandonano con i sermoni o le dimostrazioni, al massimo ne cambiano la facciata.

La conseguenza di questo contrasto è che un cristiano – e a maggior ragione un cristiano parte delle istituzioni clericali – non arriverà mai a proporre la vera soluzione per raggiungere la giustizia sociale che pur predica: l’esproprio violento degli espropriatori. Non lo farà perché ha troppa fiducia nel potere dell’intellettualismo morale e perché, banalmente, ha bisogno di chi ha i mezzi di produzione oggi, per portarlo avanti. Si chiarisce che un tale richiamo alla “violenza” (che non è per forza da concepire nel sangue ma anche, “semplicemente”, nell’eversione istituzionale o nella semplice minaccia della violenza nello stato d’eccezione) parte dal presupposto che la parte padronale, finché detiene il possesso di tutti i mezzi di produzione dei beni, del credito e dell’informazione, reagirà con ogni mezzo vedendo crescere a dismisura un movimento operaio autentico. Non è, in altre parole, il movimento operaio che usa per principio e dal principio la violenza – non è il suo ideale di vita la sofferenza fisica – ma il servirsi di essa sarà una inevitabilità pratica e dialettica.

L’esproprio violento di chi ha espropriato violentemente il frutto del lavoro degli altri è l’unico meccanismo sociale che porta ad una società in cui vige il rispetto del lavoro e il solidarismo. Si raggiunge con le elezioni, come suppongono i catto-comunisti?

Si potrebbe supporre, in una situazione ideale. Da rivoluzionari realisti bisogna però essere coscienti che è difficile che ciò accada. È sufficiente guardare gli organi dello Stato borghese e della società che non possono essere immediatamente presi “in gestione” attraverso le elezioni “democratiche”, e che sono semplicemente legati a chi possiede grandi patrimoni e mezzi di produzione e che comprometterebbero, con i loro ricatti, non solo un governo socialista appena eletto ma persino un suo avvicinarsi alla vittoria.

Tra questi organi troviamo, infatti, il Direttorio della Banca d’Italia, nominato dal consiglio superiore della Banca, espressione degli azionisti privati; il Consiglio Direttivo della BCE costituito dai sei membri del Comitato esecutivo e dai governatori delle banche centrali dei 19 paesi dell’area dell’euro; i direttori sanitari e amministrativi delle aziende sanitarie, e i direttori di dipartimento nominati dal direttore generale e fondamentali per boicottare a livello locale i diritti fondamentali; i dirigenti e i tecnici non apicali di tutti i Ministeri e delle Forze Armate, quelli che sostanzialmente fanno funzionare lo Stato, la durata degli incarichi dei quali segue oggi la ratio per cui essa è correlata agli obiettivi prefissati e, comunque, non può essere inferiore a tre anni né eccedere il termine di cinque anni; il Presidente dell’INPS; i vertici dell’Agenzia delle Entrate; gli amministratori nominati dagli azionisti pubblici e privati di Cassa Depositi e Prestiti e di tutte le aziende parastatali, che durano in carica per il periodo indicato nell’atto di nomina.

Il non poter affidarsi all’ipotesi di una transazione “pacifica e graduale” di tali strumenti nelle mani del proletariato rende senz’altro inevitabile parlare di rottura rivoluzionaria dello stato borghese e scontro frontale fra chi vive del proprio lavoro e chi di rendita di potere e vuole continuare a farlo. Solo una filosofia che indirizza il militante a questa prospettiva può dare una speranza realistica di creazione del socialismo.

La proprietà è un diritto, dunque? Non se ottenuta espropriando il frutto del lavoro altrui, non se il suo possesso come mezzo di produzione favorisce una posizione di forza che permette questo esproprio. Oggi che siamo ai massimi storici di disparità nel possesso della ricchezza nel mondo ed in Italia dovrebbe essere chiaro. Si può mettere una pezza a questa disparità con una patrimoniale senza subire conseguenze nefaste? Certo, soprattutto se ciò funge da primo passo per rafforzare il potere e la qualità della vita dei lavoratori e per la costituzione del socialismo. Si può costruire il socialismo e abbattere definitivamente la dittatura dei proprietari affidandosi alla morale clericale? No, perché questa sarà sempre priva dell’elemento fondamentale per raggiungere la reale giustizia sociale: la volontà di non negoziare con gli espropriatori.


[1] https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/indagine-famiglie/bil-fam2014/suppl_64_15.pdf.

[2] https://www.istat.it/it/files/2019/05/Nota_Ricchezza_2005_2017.pdf.

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