Joe Biden non cambierà nulla della forma dell’imperialismo americano e della crudeltà del suo capitalismo. Ma forse cambierà una cosa nella sostanza, cioè nelle sue conseguenze immediate. Infatti, mentre Trump cercava di risolvere le contraddizioni del petrodollaro e dell’abissale deficit commerciale americano, soprattutto con la Cina, creando tensioni commerciali (dazi) e valutarie, Biden cercherà più probabilmente di metterci la solita toppa americana: la guerra per il mantenimento dell’egemonia economica in alcune aree. Trump era forse anche più disposto a usare la leva fiscale e svalutare maggiormente il dollaro, il secondo userà più la politica monetaria, che ha dimostrato di essere più sterile. Mentre Biden, dunque, fossilizzerà tendenzialmente i rapporti geopolitici, la politica trumpiana, se portata agli estremi e adottata come forma mentis della politica americana, avrebbe potuto portare scompensi fino addirittura alla rottura dell’unione monetaria europea in futuro. Una UE in rotta di collisione commerciale con l’America e in maggior sofferenza negli scambi internazionali avrebbe creato, infatti, maggiori tensioni interne tra gli stati e proposte di rottura per riacquistare la leva fiscale nazionale, o per reagire in modo diverso rispetto a Bruxelles.
Questo è un bene o un male? In altre parole, sarebbe stata preferibile una rottura forzata dalla necessità ma ancora nell’alveo dei partiti iper-capitalisti, come la Lega o il duo M5S-Pd, o è meglio mantenere la lotta per l’uscita dall’UE negli ambienti anti-capitalisti e comunisti, per un percorso più lungo?
Difficile dire quale scenario darebbe o avrebbe dato, lungo gli anni, più forza di rivalsa alla classe lavoratrice. Ma un esempio di rottura monetaria nella cornice iper-capitalista è dato dalla disgregazione dell’Unione Sovietica degli anni ’90, e non è andata bene per i paesi con valuta più debole (cfr. G. Coppola, Università degli studi di Milano).
Dopo il crollo dell’URSS nel 1992, nonostante i paesi satelliti dell’unione fossero divenuti indipendenti, la facoltà di emettere moneta rimase in parte condivisa dalle banche centrali dei nuovi paesi. Il sistema monetario dell’Unione Sovietica era un sistema duale: vi erano rubli contanti, che potevano essere usati solo per specifici scopi, come il pagamento dei salari ad esempio, e vi erano i rubli “beznalichnye”, non contanti, definibili come moneta bancaria, utilizzati ad esempio per quasi tutti i tipi di transazioni tra imprese. Dopo il 1992, le banche centrali degli ex paesi satellite potevano ancora emettere “beznalichnye”, ovvero moneta bancaria non contante. In questo modo il governo Ucraino finanziava le aziende del paese ad acquistare input produttivi dalla Russia. Scrive Tepper : “This created a free-rider problem where smaller national banks could print large amounts of money at all within the Russian system”.
Il governo russo per la prima metà del 1993 accettò questa situazione, consentendo alle imprese degli ex- paesi sovietici di utilizzare “i rubli bancari” emessi dalle loro banche centrali. La situazione cambiò il 24 luglio del 1993 quando la Banca centrale Russa annunciò che tutti i rubli emessi anteriormente al 1993 non sarebbero più stati moneta legale a partire dal 26 Luglio dello stesso anno e che potevano essere convertiti ad un tasso di cambio fissato in Russia.
Le reazioni del ministro delle finanze e di molti parlamentari dell’epoca ci mostrano che la decisione non fu presa congiuntamente da tutte le istituzioni e che non ci fu una importante preparazione e coordinazione. Il risultato fu un caos che costò caro alle economie di tutti i paesi coinvolti. Nessun controllo dei capitali, nessun controllo reale del cambio, nessuna pianificazione economica (ovviamente, visto che il punto di rompere l’Urss era proprio farla finita con essa). Nessun potere della classe lavoratrice, anzi spinta alla “competitività” tramite il dumping salariale.
Ander Aslund, studioso tra i più grandi esperti delle economie post-comuniste, offre un quadro delle conseguenze economiche scontate dai paesi satelliti dell’URSS in seguito alla dissoluzione del rublo:
“The combined output falls were horrendous, though poorly documented because of the chaos. Officially, the average output fall in the former Soviet Union was 52 percent, and in the Baltics, it amounted to 42 percent (Åslund 2007, 60). According to the World Bank, in 2010, 5 out of 12 post-Soviet countries Ukraine, Moldova, Georgia,Kyrgyzstan, and Tajikistan — had still not reached their 1990 GDP per capita levels in purchasing power parities. Similarly, out of seven Yugoslav successor states, at least Serbia and Montenegro, and probably Kosovo and Bosnia-Herzegovina, had not exceeded their 1990 GDP per capita levels in purchasing power parities two decades later”.
Nel caso nei paesi post-comunisti, l’adozione di una valuta più debole non è coincisa con il controllo pubblico dei capitali, con l’industrializzazione pianificata dell’economia grazie ad una “nuova autonomia fiscale” come potrebbe essere in Italia, o con una lotta per l’aumento dei salari. E’ coincisa solo con la rinuncia ad una valuta più spendibile, tutto qua. Il risultato: crollo della META’ del Pil e, dopo 16 anni, economia ancora più arretrata rispetto all’epoca comunista.
In questo scenario, com’è evidente dalle decisioni irruente e scoordinate delle banche centrali dell’epoca, la mancanza di pianificazione da parte delle autorità ha giocato un ruolo centrale. E’ probabile che una uscita dall’euro per mano delle forze iper-liberiste, che vorrebbero anzi uscire dall’Ue in nome di una maggiore “libertà d’impresa”, assuma connotati simili a questi. Per questo è importante lottare perché sia una forza socialista-comunista a intraprendere l’uscita.