Tra le misure per incoraggiare le nuove assunzioni e i nuovi investimenti per la ripresa ci sono il prolungamento della sospensione del Dl Dignità, con la possibilità dunque di rinnovare senza causali e senza limiti i contratti a tempo determinato senza trasformarli in indeterminato, e lo studio di un nuovo bonus per le assunzioni a tempo indeterminato che dovrebbe prevedere una decontribuzione piena per le imprese (praticamente un Jobs act potenziato).
Come al solito la possibilità di ripresa e di stabilità dei lavoratori vengono fatte coincidere, rispettivamente, con la facoltà per le imprese di tenere sotto il torchio della precarietà i dipendenti e di avere privilegi fiscali a carico della collettività.
Certo, non si può negare che oggi la pressione fiscale sia alle stelle (ma non per tutti: per le grosse imprese l’Ires e la progressività fiscale sono diminuite negli ultimi anni, per non parlare dei grandi elusori), e questo è dovuto al fatto che ogni anno lo Stato continua a pagare dai 60 ai 70 miliardi di interessi sul debito pubblico a parassiti socialmente inutili, visto che una Banca Centrale controllata dal pubblico potrebbe fornire a costo zero tutti i “capitali” necessari al governo (ma le imprese si lamentano di questo? No, perché è più facile per loro sottopagare i dipendenti e perché molti dei loro proprietari hanno capitali proprio nel mercato finanziario).
Com’è anche vero che il cambio fisso (l’euro) tra paesi Europei con differenziali di inflazione differenti ha penalizzato i profitti assoluti Italiani e ha proletarizzato tante Pmi a favore di multinazionali (ma chi è che ha voluto il mercato unico dei capitali e delle merci? I lavoratori o la parte datoriale?).
PERO’ la retorica confindustriale per cui in Italia non ci sono investimenti perché l’impresa “produttiva” è oppressa da rivendicazioni sindacali e tasse non regge nella maniera più assoluta, prima di tutto perché in Italia la QUOTA PROFITTI (la parte di Pil che va ai profitti da capitale piuttosto che ai salari) è più alta che in Francia e Germania, le due “locomotive” d’Europa. E lo è – a parte qualche anno nel primo decennio dei 2000 – ininterrottamente dal 1969.
In confronto alla Germania, la quota dei profitti sul Pil in Italia fu più alta nei primi anni ’90; il gap è aumentato per arrivare a più di 5 punti percentuali nel 2000-2002 per poi arrivare a zero nel 2008 (dopo 5 anni di deflazione salariale in Germania a seguito delle riforme Hartz). Come scrive Servaas Storm (da cui la maggior parte dei presenti dati sono tratti), le “riforme strutturali” degli anni ’90 ebbero un grande effetto in Italia in termini di aumento di quota profitti e quest’ultima è rimasta – come mostra il grafico – prevalentemente più alta che in Francia e Germania.
I promotori della deflazione salariale e del liberalismo giustificano l’aumento della quota profitti sulla quota salari osservando che nel periodo di “freno” al potere negoziale dei lavoratori il rapporto investimenti-Pil è salito dal 17.9% (1993) al 22% (2008). L’austerità salariale favorirebbe “gli investimenti”.
Ovviamente questo è totalmente falso. Innanzitutto perché nel 1975, in piene rivolte operaie e nel periodo di massima pressione salariale del secondo dopoguerra, il rapporto investimenti-Pil era arrivato al 24%. Poi perché, nonostante la quota profitti in Francia sia più bassa di ben 7 punti percentuali (!) gli investimenti sul Pil sono più alti di più di 6 punti percentuali (2018). Inoltre, mentre in precedenza la Germania investiva una percentuale più alta di Pil rispetto all’Italia, questa è crollata proprio in concomitanza dell’esplosione dei contratti a tempo determinato degli anni 2003-2008.
Infine, oggi, l’Italia investe il 18.6% del suo Pil all’anno, mentre Francia e Germania investono rispettivamente il 23.6% e il 18.6% del loro Pil, nonostante la nostra maggiore quota profitti.
La strategia di dare FACILITAZIONI reddituali e negoziali alle imprese a DISCAPITO di qualcun altro (il lavoratore e la comunità in generale) si è dimostrata dunque FALLACE.
Persino in un contesto di mercato, ciò che stimola gli investimenti è soprattutto la domanda interna (e non la possibilità di pagare meno i dipendenti).
Quello che vogliamo e per cui dovremmo lottare tutti noi, però, è il controllo materiale di tutte le imprese da parte dei loro lavoratori, in maniera cooperativistica, ed una pianificazione democratica, controllata dalle classi basse, dell’industrializzazione nazionale. Oltre, ovviamente, un controllo pubblico dei capitali parassitari in vista di un loro utilizzo per investimenti a pioggia nell’industria e nei lavori pubblici, e un controllo pubblico del commercio estero per evitare fenomeni di dumping salariale.
Questi sarebbero gli unici modi per massimizzare equità, investimenti e le innovazioni – abolendo la possibilità guadagnare “facile” sulle spalle di un sottoposto e le asimmetrie informative del mercato, che paralizzano in momenti di crisi e avversità al rischio le nuove iniziative.
SARA’ UN AUTUNNO CALDO
Inizia presto la battaglia “interna” per scegliere come utilizzare i pochi soldi reali (a prestito e condizionati) che avremo a disposizione anno per anno con il Recovery Fund. I sindacati confederali chiedono un confronto al governo “per migliore e più equa distribuzione risorse Ue”. Ma al di là delle passerelle, basta andare NEI LUOGHI DI LAVORO per carpire la vera mentalità di organizzazioni che, eccetto pochi flussi e personalità locali, sono da decenni decisamente filo-padronali.
Si parla di un incontro della FIM-Cisl avvenuto qualche giorno fa in Veneto con i metalmeccanici, in cui il delegato ha esordito dicendo «dobbiamo capire che il blocco dei licenziamenti dovrà pur finire prima o poi». Alla faccia di chi credeva che lo scopo dei rappresentanti dei lavoratori fosse lottare per far pagare la crisi ai chi ha grossi capitali (basterebbe una pianificazione industriale ben finanziata e si raggiunge la piena occupazione in qualche mese, in un paese come l’Italia).
La fine della politica industriale – avvenuta in Italia con lo smantellamento dell’IRI e la stagione delle privatizzazioni degli anni ’90 – ha reso il paese completamente alla mercè delle percezioni e le voluttà contingenti dei capitali singoli e del mercato. I licenziamenti di massa che ci potrebbero essere sono una conseguenza di questo. Non che prima fosse il paradiso dei lavoratori, ma almeno c’era un minimo di contraltare.
C’era fino a inizio anni ’90, quando i confederali hanno deciso di passare dal “conflitto” (sempre fatto controvoglia, per assecondare una base cosciente) alla concertazione, cioè ad assecondare i progetti deflazionistici europeisti del mercato unico (valute stabili e salari stagnanti per favorire al massimo la circolazione dei capitali). Tutto questo ha influito sul crollo degli investimenti in innovazioni e, quindi, nella produttività.
I risultati si vedono IN QUESTO GRAFICO. Da inizio anni ’90 inizia il calo del salario reale italiano in confronto a Francia, Germania, Olanda e Belgio.
La crescita del salario reale per dipendente, che era in media 3.2% all’anno nel periodo 1960-1992, si abbassò ad un misero 0.1% all’anno nel periodo 1992-1999 e ad uno 0.6% all’anno nel periodo 1999-2008. All’interno dell’UE, l’inversione a U dell’Italia fu incredibile: nel periodo 1992-2008, la crescita dei salari reali italiani per lavoratore (0.35% all’anno) fu solo metà della crescita in Francia, Germania, Olanda e Belgio (0.7% all’anno, pur infima). L’Italia è stata la nazione che più di tutte ha applicato DILIGENTEMENTE l’ideologia liberalista europea.
Come si nota dalla figura, nei primi anni ’60 il salario reale medio di un lavoratore italiano era circa l’85% di quello Francese, con questo rapporto che aumentava fino a raggiungere il 92% nel 1990-1991. A cominciare dal 1992 (gli “accordi di Luglio” per la concertazione sono del 1993) il salario reale italiano vs quello francese inizia a declinare fino a raggiungere un 75% nel 2018.
Quella che ci aspetta è una nuova stagione di lotte.