Parliamo di una tematica la cui gravità ha raggiunto l’apice proprio a causa dell’emergenza epidemiologica di questi mesi. Una tematica resa palese dai recenti assalti ai supermercati avvenuti a Palermo, che hanno visto per protagonisti lavoratori disoccupati la cui particolare condizione non era presa adeguatamente in considerazione dai recenti decreti del Presidente del Consiglio.
Il Dl Cura Italia ha infatti, ad oggi, una brutta falla. Al 7 Gennaio 2020, i nuclei percettori del Reddito di Cittadinanza erano 915.600. Ma, all’istituzione del Reddito, l’Istat calcolava in 1,8 milioni di famiglie quelle in povertà assoluta (con un’incidenza pari al 7,0%) per un totale di 5 milioni di individui. Si presume che circa 2 milioni e mezzo di persone abbiano deciso di non usufruire del Reddito perchè occupate in un lavoro nero, o prese a carico da chi ne svolgeva uno.
Ora, chiunque abbia un po’ di dimestichezza con la vita reale, sa che la stragrande maggioranza dei dipendenti in nero sono vittime passive del sistema, che sono costrette ad accettare un lavoro senza alcuna tutela contrattuale e giuridica e, soprattutto, economica. Sono il vero sottoproletariato del paese. Chiunque abbia vissuto una esperienza di lavoro nero, specialmente in settori – come quello turistico – ove esso è svolto a cadenza stagionale, conosce i disagi e le ripercussioni sulla vita reale che tale situazione apporta. Non sapere la mattina, mentre si va al lavoro, se dopo un mese o due le condizioni o le mansioni cambieranno. O se si sarà licenziati. Non avere alcun potere contrattuale nei confronti del padrone. Ricevere con finta riconoscenza i canonici 3 euro/ora, stipendio base di molte realtà, come quelle costiere e meridionali.
Per queste persone il Dl Cura Italia non può fare nulla: esse passeranno da essere occupate in nero a “disoccupate in nero”. Sarebbe troppo facile dir loro di «richiedere il sussidio adesso»: consapevoli che l’unico sbocco sociale lavorativo potrà essere, in futuro, di nuovo il lavoro nero, è difficile affidarsi ad una misura che è per sua natura lenta e farraginosa nel trovarti un’occupazione vera.
Il dogma dell’infallibilità della teoria dell’austerità espansiva mostra con la crisi odierna le prime crepe. Questo è il momento più opportuno per rivendicare a gran voce, innanzitutto, l’istituzione di un salario di quarantena, che non si limiti a sopperire alla differenza tra capacità e soglia di povertà, che consista in almeno 900-1000 euro mensili, e che sostenga questa parte economicamente emarginata della popolazione la quale si trova nel vicolo cieco di non poter lavorare e di non poter dimostrare di non poterlo fare. Il governo sembra voler correre ora ai ripari, annunciando un sostegno di emergenza che dovrebbe consistere nell’estensione dei 600 euro a tutti in maniera indiscriminata, con il paradosso però che chi si trova in una situazione di concreta indigenza riceverà lo stesso sussidio di potenziali milionari (come scrive il giornalista F. Oliva, «l’agevolazione per gli iscritti alla gestione separata INPS è incredibilmente svincolata da qualsiasi requisito reddituale»).
Soprattutto, bisogna spingere per un vero piano di assunzioni statale, parallelo ad un piano di lavori pubblici e rinnovamento della pubblica amministrazione, che attui una vera lotta contro il lavoro nero e fornisca allo stesso tempo un progetto formativo verso il lavoratore, rigorosamente retribuito.
Questo è, però, solo la punta dell’iceberg dell’ambiente sommerso e senza voce del lavoro stagionale tout court, il quale si trova in una condizione di sotto-tutela anche nei casi in cui viene formalmente svolto secondo apparenze legali.

I soprusi nei riguardi dei lavoratori stagionali sono tra le maggiori piaghe del nostro paese. Vera schiavitù moderna che conduce migliaia di giovani, laureati e non, al collasso psicologico. Tale emergenza sociale si fonda sulla mancanza di trasparenza che caratterizza spesso gli imprenditori stagionali, sulla esiguità di controlli e denunce, sul timore e l’isolamento del dipendente stagionale. E’ la regola, anche per un dipendente stagionale che possiede un regolare contratto, non poter usufruire di neanche un giorno libero nell’arco di quattro o cinque mesi di lavoro continuativo. E’ d’uso dover accettare di ricevere un salario minore di quello proprio della busta paga pattuita, pratica spregevole che danneggia il lavoratore sia dal punto di vista fiscale per la sua dichiarazione dei redditi annuale, che per eventuali richieste di agevolazioni fiscali per i lavoratori precari a basso reddito. Alla fonte di queste situazioni, non devono essere sottovalutati fattori come l’eccessiva flessibilità nella forma contrattuale stagionale, che concede al datore di lavoro un potere negoziale enorme nella possibilità di assumere un giovane per qualche settimana e non rinnovare il rapporto di lavoro se il dipendente non asseconda ogni vessazione o impiego arbitrario. E’ intanto urgente equiparare la disciplina dei contratti stagionali almeno a quella dei contratti a termine e a tempo indeterminato ordinari, com’è urgente un potenziamento dell’Ispettorato del Lavoro. La strada verso una socializzazione delle piccole e medie imprese che si occupano di agricoltura e turismo passa infatti per la creazione di consapevolezza della forza “contrattuale” dei lavoratori coinvolti e per la loro unità d’azione pratica.
La tipologia di lavoro stagionale è stata sempre oggetto, negli anni, di una tutela sottodimensionata, con il pretesto di essere poco adatta alla regolamentazione visto il suo carattere “ciclico”. La sempre più estrema precarizzazione dei diritti dei lavoratori che abbiamo vissuto negli ultimi anni trova infatti la sua più tipica espressione nelle clausole riguardanti gli stagionali.
La legge 247/2007, ad esempio, al fine di evitare l’eccessiva diffusione della tipologia contrattuale del lavoro termine e, in particolare, la sua reiterazione, introdusse limiti ulteriori rispetto alla disciplina precedente del d.lgs.n.368 del 2001, introducendo all’art.5 i commi 4 bis e 4 ter. Per effetto della suddetta normativa è stato previsto che, fermo rimanendo il limite temporale di interruzione tra un rapporto a termine e il successivo (l’art. 5, co.3 del 368/2001 stabilisce che “qualora il lavoratore venga riassunto a termine entro un periodo di dieci giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero venti giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore a sei mesi, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato”), in caso di successione dì differenti contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti, il rapporto di lavoro tra le parti non può eccedere complessivamente i 36 mesi, comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrano tra un contratto e l’altro. Ove il periodo complessivo di 36 mesi fosse superato, il rapporto di lavoro si verrebbe a considerare a tempo indeterminato. Il limite dei 36 mesi (oggi portati a 24 dal dl Dignità del 2018) di durata massima non si applica nei confronti dei lavoratori impiegati in attività stagionali (definite dal DPR n.1525/1963).
Sebbene possa sembrare ovvia e “sensata” una tale specificazione, ciò non tiene in conto che la maggior parte dei lavoratori stagionali trae da tale occupazione la maggior parte del reddito utile alla propria esistenza. C’è la necessità di pensare una tipologia di contratto stagionale che contempli il carattere indeterminato: la sicurezza, al lavoratore, di poter lavorare la stagione successiva per le stesse mansioni, nello stesso ambiente e con la stessa paga, senza il timore di essere scartato per un “competitor” più acquiescente alle richieste economiche del padrone.
Andando avanti nell’analisi dei riferimenti normativi sul lavoro stagionale, segnaliamo anche un elemento “positivo” di cui difficilmente i prestatori di lavoro sono a conoscenza, non potendo quindi sfruttare i pochi margini di negoziazione che esistono: il lavoratore assunto a termine per lo svolgimento di attività stagionali ha infatti diritto di precedenza rispetto a nuove assunzioni a termine da parte dello stesso datore di lavoro per le medesime attività stagionali (art.5, co.4 quinquies, d.lgs. 368/2001, introdotto dall’art. 40, l. n.247/2007). Tale diritto sussiste a condizione che il lavoratore manifesti in tal senso la propria volontà al datore di lavoro entro tre mesi dalla data di cessazione dell’ultimo rapporto e si estingue entro un anno dalla medesima data (art.5, co.4 sexies, d.lgs. n.368/2001, introdotto dall’art. 40, l. n.247/2007). Nulla prescrive però la norma riguardo le conseguenze del mancato rispetto del diritto in questione da parte del datore di lavoro. Sul punto ha un peso rilevante nella dottrina la tesi «secondo cui la violazione darebbe luogo al solo risarcimento del danno», la quale ha anche «ricevuto l’avallo della Corte di Cassazione, che ha stabilito che «il diritto di essere preferito non è assistito dalla tutela in forma specifica (ai sensi dell’art. 2932 c.c.) perché si tratta, non già di un diritto, sia pure condizionato, alla stipulazione di un contratto di lavoro, ma soltanto del diritto ad essere preferito, come contraente, nel caso in cui il datore di lavoro decida di procedere a nuove assunzioni». Le tutele minime di questa categoria di lavoratori sono dunque ambigue e ben celate nei meandri della giurisprudenza.
Proseguendo cronologicamente, osserviamo ora la legge 92/2012, la così detta riforma Fornero, che opera una ulteriore modifica del d.lgs. n. 368/2001 e si concentra sugli intervalli tra due contratti a termine successivi, il cui mancato rispetto comporta la conversione del secondo in contratto a tempo indeterminato ai sensi dell’art. 5 co.3. Un contratto di durata fino a sei mesi, non potrà allora essere seguito da un altro contratto a tempo determinato stipulato entro sessanta giorni (precedentemente dieci) dalla scadenza del primo; la riassunzione non può avvenire invece entro i novanta giorni (prima venti) dalla scadenza del contratto di durata superiore ai sei mesi.
La Fornero prevede la possibilità, da parte della contrattazione collettiva stipulata dalle associazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, di ridurre gli intervalli da sessanta o novanta giorni, sino ad un minimo di venti o trenta giorni, se le assunzioni successive avvengono nell’ambito delle stesse esigenze organizzative che giustificano la possibilità di apposizione del termine a-causale alternativa a quella del primo contratto di durata massima di dodici mesi ex art. 1 co.1- bis del decreto legislativo. Tuttavia l’intervento del d.l. n. 83/2012 (cd. Decreto Sviluppo – convertito con l. 7 agosto 2012, n. 134) aggiunge un ulteriore periodo al co.3 dell’art. 5, ampliando così la possibilità di riduzione dei termini in questione per le attività stagionali, e in ogni altro caso stabilito dalla contrattazione collettiva delle stesse organizzazioni sindacali di cui sopra. Ancora, viene quindi ribadito che la ratio del limite alla continuità – come della durata massima – per un contratto a termine (secondo la quale un datore di lavoro non dovrebbe avere motivo, superata una certa soglia temporale di collaborazione, per non trasformare un contratto in indeterminato), non vale per la categoria degli stagionali.
Similmente, le disposizioni del così detto Jobs Act del 2015 concernenti i periodi di stop and go e la violazione di questi, oltre che alle start-up innovative di cui al co.3 dell’art. 21, non si applicano ai lavoratori impiegati nelle attività stagionali individuate con decreto del Ministero del Lavoro.
L’assunzione a tempo determinato, in particolare, è slegata nel Jobs Act dai limiti quantitativi del 20% di personale a tempo determinato se avviene, tra l’altro, per lo svolgimento di attività stagionali.
Il Dl Dignità, ultima novità legislativa sul tema, introduce un co.1 all’art. 21 del d.lgs. n. 81/2015, il quale prevede che il contratto a tempo determinato può essere rinnovato solo a fronte delle condizioni di cui all’articolo 19, co.1 (esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze sostitutive di altri lavoratori; esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria). Il contratto a tempo determinato può essere invece prorogato liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente, solo in presenza delle esigenze di cui all’articolo 19 co.1. In caso di stipulazione di un contratto di durata superiore a 12 mesi in assenza delle predette condizioni, per il Dl Dignità il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di superamento dei 12 mesi. Una deroga al principio generale della causalità si ha, ancora, per «i contratti per attività stagionali, di cui al co.2, che possono essere rinnovati o prorogati anche in assenza delle condizioni di cui all’articolo 19, co.1». Anche il così detto “governo del cambiamento” aveva dunque ceduto alle pressioni del padronato per il quale l’attività stagionale sembra essere lucrosa solo riuscendo a precarizzare e mettere sotto pressione il dipendente.
A completare questo quadro vogliamo far notare che per accedere all’indennità di disoccupazione NASpI, spesso il solo ammortizzatore economico del lavoratore stagionale, occorre il requisito contributivo, ovvero il versamento di almeno 13 settimane di contributi durante i 4 anni precedenti l’inizio della disoccupazione, ma nel calcolo di questo non sono utili i periodi coperti da contribuzione figurativa per: cassa integrazione straordinaria e ordinaria a zero ore; permessi fruiti dal lavoratore per assistere un familiare.
Alla luce di quanto esposto, pensiamo sia fondamentale lavorare per le seguenti RIVENDICAZIONI IMMEDIATE:
1 – Nel rispetto nelle norme relative al periodo di prova, il quale potrà essere modulato liberamente dalle parti con il limite però che non potrà, in nessun caso, essere disposto di una durata superiore alle due settimane, l’utilizzo di una causale verificabile nel caso in cui il lavoratore venga riassunto con contratto stagionale entro 10 giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a 1 mese, oppure entro 20 giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore a 1 mese. In caso di mancanza della causale, dopo un anno dalla stipula del primo contratto o al primo rinnovo, un’assunzione stagionale viene a prendere la forma di un contratto a tempo indeterminato che contempli la particolare ciclicità e intermittenza del lavoro stagionale.
2 – La trasformazione del contratto stagionale in forma indeterminata in ogni caso, dopo che siano trascorsi 24 mesi dalla stipula del primo contratto stagionale, purché il lavoratore abbia prestato attività lavorativa almeno per un mese ad ogni intervallo di 12 mesi e abbia realizzato almeno 4 mesi di prestazione lavorativa totale. Alle eventuali chiusure anticipate giustificate del contratto si applicano quindi le norme del contratto a tempo indeterminato.
3 – L’aumento del 50% del personale dell’Ispettorato del Lavoro, la rotazione degli ispettori tra le zone, il raddoppio delle attuali 74 sedi e l’abolizione del divieto di maggiori oneri per lo Stato per il finanziamento dell’Ispettorato; la creazione di un sistema pubblico con supporto informatico e dotato, grazie al raddoppio delle sedi, di sale adibite alle riunioni, per la coordinazione dei lavoratori stagionali regionali, e la preparazione di istanze e denunce comuni prodotte sia attraverso rappresentanza libera sia attraverso organizzazione sindacale.
4 – Il salario minimo orario intercategoriale stagionale di 10 euro l’ora.
5 – Che il calcolo della NASpI tenga conto dei periodi coperti da contributi figurativi che hanno già dato luogo al pagamento di prestazioni di disoccupazione.
Tutto questo darebbe ai lavoratori una legittima stabilità e costringerebbe gli imprenditori stagionali a investire di più in tecnologia e innovazione, e meno in gare al ribasso nei salari, per essere competitivi. E’ necessario imporre la visione che la creazione di ricchezza ha senso solo se la società può crescere i maniera sana e armonica abolendo la possibilità di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, condizione fondamentale per costruire il socialismo.
Tutto questo deve essere posto nell’ottica delle RIVENDICAZIONI DI PROSPETTIVA, che hanno natura spiccatamente politica e presuppongono la volontà di rovesciare da capo a piedi il sistema produttivo attuale, fondato sulla rendita di potere di pochi alla spalle di molti.
Solo un sistema in cui le imprese contemplino una gestione collegiale da parte dei lavoratori inclusi in esse, i quali – sotto le regolamentazioni e le linee guida di una pianificazione nazionale circa la politica industriale generale – decidano come distribuire il ricavo, come investirlo, come e dove produrre può assicurare l’esistenza di una società fondata sul riconoscimento dei contributi reciproci e sul solidarismo.
La strada verso la costruzione di una comunità socialista passa attraverso la comprensione dei bisogni immediati, per iscriverli negli obiettivi di lungo corso, e passa per la lotta per le esigenze immediate al fine di creare la coscienza della forza organizzativa dei lavoratori e al fine di dare ad essi la forza economica per proseguire con maggiore vigore le battaglie.