La vicenda riguardante il futuro dell’ex-Ilva sembra a tratti risvegliare nell’opinione pubblica e nell’approccio politico la comprensione di quanto sia estemporaneo e dannoso affidare la produzione di un bene strategico per l’economia di una comunità agli interessi produttivi di pochi oligopolisti del settore. Per il ministro Patuanelli «quando i privati come in questo caso non ce la fanno è giusto che ci sia lo Stato che in settori strategici come quello dell’acciaio decide di intervenire per garantire la continuità». Quello che manca – oltre, chiaramente, ad una vera presa d’atto pratica delle conseguenze a cui ciò dovrebbe portare – è capire che il fatto che i privati “non ce la facciano” non comunica tanto con la difficoltà contingente del settore dell’acciaio: è un effetto strutturale del breveterminismo dei colossi privati (che hanno interesse a investire in economia già lanciate e non in stagnazione come l’Italia e, quindi, puntano a spolpare ciò che rimane dell’Ilva addomesticando nello stesso tempo un competitor) e delle ferocia della globalizzazione produttiva che mette in competizione al ribasso i lavoratori di padroni di compagnie di diversi paesi del mondo, come Turchia e Cina nel caso dell’acciaio.
Ma se si può dire che l’Italia non ha mai avuto un sistema economico veramente a favore dei lavoratori tutti senza intermediazione del potere borghese, è bene ricordare come gli ultimi trent’anni abbiano visto uno smantellamento di quelle strutture istituzionali (come l’Iri) che avrebbero permesso, almeno in linea di principio, una pianificazione statale fondata sul potere popolare di controllare gli asset essenziali del paese.
La dismissione del patrimonio pubblico a privati che puntano non ad investire ma solo a rendita economica e a distruggere i concorrenti ha avuto il suo apice negli anni ’90, nel periodo prodiano. L’obiettivo era, naturalmente, quello di “sanare il bilancio Statale per entrare nei parametri di bilancio del mercato unico“, anche se erano proprio gli stessi vincoli europei in materia di monetizzazione del debito e del controllo del flusso dei capitali a costringerci a pagare miliardi di interessi e a farci preoccupare del bilancio pubblico.
A metà anni ’90 furono presi con la neonata UE gli accordi più umilianti e distruttivi per il popolo italiano.
Il più clamoroso fu l’accordo Andreatta-Van Miert (rispettivamente ministro del Tesoro italiano e commissario europeo alla concorrenza) concluso alla fine del 1993 e finalizzato alla progressiva riduzione dell’indebitamento della holding pubblica Iri (a cui Ilva apparteneva) nonché alla privatizzazione delle sue diverse affiliate.
L’accordo prevedeva:
– la privatizzazione della società Autostrade entro il mese di giugno 1997: tale società, il cui capitale è detenuto per il 20% dall’IRI e per l’80% da Fintecna (100%), presentava un indebitamento finanziario di 5 165 miliardi di lire;
– la privatizzazione di Finmare (trasporto marittimo), posseduta al 100% dall’IRI e con un livello di indebitamento di 1 136 miliardi di lire, nonché la vendita di partecipazioni di minoranza tra cui quella nella banca di Roma (l’Iri possedeva il 35% del capitale della holding che controlla la Banca di Roma e il 14% della Banca di Roma stessa);
– la vendita di Stet Telecomunicazioni al Tesoro per un valore contabile di circa 11 200 miliardi di lire;
– la privatizzazione della Seat (gruppo Stet), il cui valore era stimato in 3 200 miliardi di lire, nei primi mesi del 1997.
Inoltre, lo Stato italiano aveva dovuto impegnarsi a ridurre progressivamente l’indebitamento di dette imprese fino a portarlo ad un livello accettabile per un investitore privato operante in economia di mercato.
Lo Stato rinunciò a gestire industrie fondamentali per lo sviluppo del Paese, industrie che dovrebbero essere gestite anche in perdita se è necessario per calibrare servizi alla piccola e grande manifattura domestica. Usò i soldi, invece, per socializzare le perdite e svendere i beni “risanati” a chi li voleva spremere solo per un po’ di rendita personale.
E qual è stato lo scopo di tutto questo? Entrare nel “mercato unico”. In un mercato dove la spesa pubblica è alla mercé dell’1% più ricco del mondo che compra la stragrande maggioranza dei titoli di Stato, invece che gestita dall’erogazione Statale di moneta e dall’allocazione pianificata e diretta alla creazione di servizi pubblici dei risparmi dei ceti medi e bassi. Un mercato dove, in base al divieto di aiuti di Stato in contrasto con i parametri di mercato, al principio dell’unione doganale e al principio di libera circolazione delle merci e delle persone non si può tutelare la produzione domestica dalla concorrenza sleale.

A chi sostiene che i problemi dell’Ilva iniziarono molto prima rispondiamo con questa citazione. Anno 1975. L’Ilva soffriva degli stessi problemi di oggi, causati dagli stessi fattori: dumping estero asiatico (che si decise di non limitare) e insufficienza di intervento statale rispetto ai partner Europei, checché se ne dica. Russolillo, Storia dell’IRI.
Ribadiamo dunque che l’affaire Ilva dimostra ancora una volta che una multinazionale straniera, se investe in un paese in stagnazione, lo fa:
1 – O per trarre qualche profitto che investirà dove c’è più crescita.
2 – O per smantellare la concorrenza.
Non certo perchè le interessa «lo sviluppo nel lungo periodo del suo territorio».
E nella cornice UE, per fronteggiare crisi come quello dell’acciaieria di Taranto, i governi non possono fare altrimenti che affidarsi alla benevolenza di un grosso padrone. Infatti:
1 – Non riescono a nazionalizzare perchè gli 8-10 miliardi necessari per la ‘bonifica’ intralcerebbero i vincoli di bilancio europei. Certo, se non avessimo pagato (da quando si decise di privatizzare la gestione del debito in vista dell’entrata in UE) più di 3000 miliardi di euro di interessi nel giro di trent’anni a creditori privati e se non dovessimo finanziare il bilancio Europeo e il MES il Paese ce la potrebbe fare.
2 – I governi non potrebbero in ogni caso supportare la riqualifica dell’ex Ilva e proteggerla dall’acciaio a basso costo di Turchia e Asia perchè per il regolamento UE sarebbe aiuto di Stato.
Ci sono casi in cui l’UE ha razionalmente previsto l’ammissibilità degli aiuti di Stato. Ad esempio gli aiuti fino a duecentomila euro concessi per un periodo di tre anni. Oppure
a) gli aiuti a carattere sociale concessi ai singoli consumatori, a condizione che siano accordati senza discriminazioni determinate dall’origine dei prodotti;
b) gli aiuti destinati a ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali;
c) gli aiuti concessi all’economia di determinate regioni della Repubblica federale di Germania che risentono della divisione della Germania
d) gli aiuti destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni ove il tenore di vita sia anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione. E altri casi simili.
Un governo serio impugnerebbe perlomeno l’ultima possibilità, ma sbatterebbe contro un muro per la discrezionalità della Commissione Europea che difficilmente fa questi tipi di concessioni all’Italia (che in fondo è “un paese ricco”), e i precedenti lo dimostrano.
Perciò, a meno di non voler trasformare giuridicamente la produzione dell’acciaio in un servizio pubblico di base come la posta (in quel caso i rimborsi pubblici sono ammessi), dentro il contesto UE un governo (parzialmente proprietario o meno) non potrebbe gestire l’acciaieria di Taranto a condizioni non di mercato, cioè sussidiando la produzione per qualche tempo per ammortizzare i costi della riqualifica o per affrontare la concorrenza estera sleale.
Dentro l’Unione Europea siamo a forte rischio deindustrializzazione anche per quanto riguarda un asset fondamentale come l’acciaio, quando la soluzione sarebbe una vera pianificazione statale diretta verso un settore industriale gestito da consigli dei lavoratori interessati all’efficienza nel lungo periodo del proprio prodotto, tutelati dal dumping salariale estero con una rete razionale di accordi commerciali.