FAR RINASCERE I COMUNI ITALIANI E’ POSSIBILE (ANCHE SE SIAMO COSI’ FOLLI DA RESTARE NELL’UE)

FAR RINASCERE I COMUNI ITALIANI E’ POSSIBILE (ANCHE SE SIAMO COSI’ FOLLI DA RESTARE NELL’UE)

Questo progetto di misura fiscale mira principalmente ad assicurare le risorse finanziarie al fine di poter procedere con la definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni dovuti dagli enti locali, definizione da legiferare secondo quella che era la delega dell’art. 20 della legge 42/2009, in attuazione dell’articolo 117 della Costituzione. Una volte stabilite le risorse, in misura molto maggiore del livello attuale e in attuazione della componente verticale del fondo prevista dalla 42/2009, il dibattito politico potrà concentrarsi sulla natura ed il livello di servizi da garantire attraverso l’utilizzo delle stesse.

Chiariamoci subito: uno Stato che vuole VERAMENTE investire sullo sviluppo umano nelle aree più disagiate non dovrebbe farsi scrupoli a porre dei seri vincoli all’uso speculativo dei capitali, fino all’abolizione totale della speculazione improduttiva in favore del loro investimento nell’economia reale, e non dovrebbe spaventarsi a redistribuire in maniera massiccia e definitiva la ricchezza dalle fasce altissime a quelle lavoratrici, una volta constatato che l’1% degli Italiani possiede quasi il 22% della ricchezza. Infine sarebbe ridicolo volere aumentare gli investimenti netti senza volere un rinnovato controllo della propria valuta e della sua erogazione.

Ma siccome siamo, appunto, in tempi ridicoli a livello ideologico e in tempi di rapporti di forza estremamente favorevoli al grande capitale, proponiamo qui un indirizzo che potrebbe fruttare le coperture per aumentare di circa 30 miliardi annui gli investimenti infrastrutturali e sociali nei comuni italiani, senza turbare molto l’animo sensibile dei liberoscambisti odierni.

Il governo potrebbe senza particolari problemi tecnici fare una legge in cui si dichiarano quali debbano essere i Livelli Essenziali di Prestazione (LEP) per ogni comune, che devono per Costituzione essere garantiti economicamente dallo Stato. Il maggiore ostacolo alla sua realizzazione è il fatto, presunto, che non ci siano risorse finanziarie per assicurarli.

In realtà in Italia la ricchezza continua ad accumularsi da anni in pochi settori, e i comuni poveri avranno sempre meno la possibilità di finanziare i servizi fondamentali. Ma se la ricchezza si polarizza oltre ogni limite socialmente accettabile, la soluzione dovrebbe essere consequenziale. Il valore complessivo della ricchezza Italiana si è attestata, in valori nominali, a 10.853 miliardi di dollari, secondo OXFAM (inserto rapporto Davos 2019). La ricchezza dell’5% più ricco degli italiani (titolare di quasi il 40% della ricchezza nazionale netta) è pari a 44 volte la ricchezza del 30% più povero dei nostri connazionali. Il rapporto sale a 240 volte circa, se si confronta lo stato patrimoniale netto dell’1% più ricco degli italiani (che detiene il 21,5% della ricchezza nazionale) con quello detenuto complessivamente dal 20% più povero della popolazione italiana.

L’1% delle famiglie Italiane corrisponde a circa 240.000 famiglie e, stando ai dati OXFAM, le 240.000 famiglie più ricche del paese avrebbero, ognuna, una media di 9 milioni e 720mila dollari di ricchezza patrimoniale. Introducendo semplicemente un’imposta dell’1% sulla ricchezza dell’1% più ricco d’Italia si trarrebbero, per il primo anno di applicazione, circa 23 miliardi di dollari di liquidità per quasi poter raddoppiare i fabbisogni attuali dei comuni (che, attualmente, usufruiscono di un fondo di 25 miliardi). Mettendo una imposta “graduale”, che imponga uno 0,5% sul patrimonio del secondo centile più ricco si potrebbe stimare un ricavo di 30 miliardi di dollari (27,3 miliardi di euro).

Sottraendo un misero 1% di ricchezza ad attori economici che godono ogni anno di gigantesche rendite finanziarie e profitti – e che, stando alle tendenze stimate da OXFAM, continueranno a godere nei prossimi anni di una crescente concentrazione di ricchezza a discapito delle fasce più basse – si finanzierebbero ottimamente scuole, strade comunali, asili nido, polizia locale, raccolta rifiuti, amministrazione e servizi sociali.

Una possibile obiezione potrebbe essere che drenando tale ricchezza dai suddetti settori crollerebbero gli investimenti finanziari. In realtà uno studio recente di Mediobanca (Mediobanca Securities Report, 17 Novembre 2015, p. 58 – Nicolo Pessina/Sara Piccinini/Carlo Signani/Carlo Cattaneo) stima per difetto un moltiplicatore fiscale di 1.2 per l’espansione monetaria in investimenti pubblici, sussidi contro la povertà, salari e abbattimento del costo del lavoro. Il che significa che ogni euro aggiuntivo immesso in tali settori economici produce  nello stesso anno 1.2 euro di Pil aggiuntivo rispetto al tendenziale e che questa è una stima al ribasso (come riporta il testo di Mediobanca, le politiche fiscali di austerità Europee hanno dimostrato un moltiplicatore fiscale maggiore).

Ipotizzando di introdurre ex novo 25 o 30 miliardi di euro nell’economia reale si provocherebbe uno stimolo che porterebbe a 30 o 36 miliardi di euro aggiuntivi di Pil (fino a +2,05%) che non solo ammortizzerebbe l’improbabile rischio di contagio di cattive aspettative finanziarie seguito al prelievo fiscale del citato ammontare di ricchezza ma produrrebbe un gettito fiscale aggiuntivo.

Non si può, ovviamente, fare un calcolo netto di questo genere in quanto una certa quota della ricchezza finanziaria dell’2% più ricco delle famiglie Italiane è già investita in “economia reale”. Tuttavia si può realisticamente assumere che una gran fetta di questa ricchezza sia investita in strumenti finanziari che hanno la sola funzione di trarre rendite da investire a loro volta in altri strumenti e speculazioni finanziarie, circolando in un meccanismo che difficilmente si traduce in investimenti in economia produttiva. Sebbene non ci siano dati certi su questa tematica si può operare una stima di buon senso che possiede, tuttavia, una forte rilevanza politica e pratica.

Si può infatti iniziare col notare che secondo OXFAM il 77% di tutte le attività finanziarie delle famiglie Italiane sono possedute dal 30% più ricco di esse. Il 52,5%, invece, dal decimo più ricco. Solo il 10% del portafoglio di quel 30% più ricco è investito direttamente in titoli di Stato (strumenti utili a finanziare la spesa e gli investimenti pubblici). Riguardo a obbligazioni private, azioni e partecipazioni, investimenti gestiti e titoli esteri c’è da notare che gli strumenti ad alto rischio e rendimento che stanno sotto a questi istituti sono quasi esclusiva dei 3 decili più ricchi della popolazione. Consideriamo poi che oltre il 40% di quel 77% iniziale è detenuto dal 5% più ricco delle famiglie, che ha un patrimonio netto in media pari a 1,3 milioni di euro. Se è vero che un’indagine di Bankitalia e Istat del 2019 ha stimato in 4.374 miliardi di euro il totale delle attività finanziarie degli Italiani, 1.347 miliardi sono appannaggio del 5% più ricco delle famiglie.

Il dato preoccupante è, tuttavia, che a fronte di queste cifre gigantesche e del loro circolare, essere messe a frutto attraverso interessi, guadagni su strumenti derivati e dividendi ed essere parzialmente reinvestite ogni anno (si legge inoltre nel rapporto di Bankitalia che solo nell’ultimo anno di analisi c’è stato un aumento delle attività finanziarie pari a 156 miliardi di euro, +3,7%), l’ammontare di investimenti pubblici e privati annuo in Italia ristagna al 18% del Pil (circa 315 miliardi), con un Pil, nel 2018 stimato in 1754 miliardi di euro. Quello che è evidente è che la grande maggioranza delle attività finanziarie possedute dagli Italiani e, a fortiori, dai centili più ricchi, non è utilizzata attraverso fondi ed istituti di credito per produrre investimenti in economia reale, né indirettamente per produrre redditi, né per credito al consumo, né per sussidi sociali: tutti elementi che coinciderebbero con del Prodotto Interno Lordo, al contrario della mera attività finanziaria. Tutto ciò non solo implica che un trasferimento di una certa quota di ricchezza del 2% più ricco verso investimenti sociali avrebbe certamente un impatto rilevante sulla crescita: rivela anche una completa non osservanza dell’articolo 41 della Costituzione (“la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”) e, implicitamente, dell’articolo 43 (“La Repubblica […] disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”).

Gli inconvenienti tipici di un’imposta sulla ricchezza sono disinnescati dai suoi stessi effetti e dalla particolare congiuntura sociale che il nostro paese sta vivendo.

Considerando la dispersione della circolazione monetaria aggiuntiva protagonista del moltiplicatore pari a 1.2, per cui è giustificabile una crescita generale dei redditi spalmata su tutti i settori e i contribuenti nazionali, assumendo come stabile la pressione fiscale calcolata dal Ministero dell’Economia, secondo cui nel 2019 la pressione fiscale sugli italiani è destinata ad attestarsi al 42,4%, un aumento del Pil fino a 36 miliardi come sopra ipotizzato porterebbe ad un aumento di gettito, per il primo anno, fino a 15,3 miliardi. Se si prevede che il tesoretto accumulato nei primi anni di applicazione della tassa sulla ricchezza deve essere usato per sostituire gradualmente, da un certo anno, le coperture derivanti inizialmente dalla suddetta tassa (che potrà essere così resa gradualmente più lieve), l’analisi tecnica che calcolerà l’esatta incidenza di tale manovra dovrebbe tenere conto di due fattori che rendono l’estrazione di ricchezza dal 2% più ricco più economicamente tollerabile.

Trasposizione grafica dei livelli di fabbisogno pro capite dei comuni Italiani come ratificata dal MEF. Notoriamente, per via delle ristrettezze di bilancio Statale si è usato l’escamotage di attribuire ai comuni fabbisogni essenziali sulla linea dei servizi già in essere, conservando le disuguaglianze storiche.

In primo luogo, il moltiplicatore citato è il risultato di una stima di breve e medio periodo sugli scambi e non contempla gli effetti positivi di lungo periodo apportati da un incremento di infrastrutture, servizi sociali, asili nido, sicurezza, efficienza amministrativa e istruzione. Questi effetti contribuiranno maggiormente a coprire un eventuale riduzione di gettito dall’imposta qui ipotizzata.

In secondo luogo, il drenare una piccola percentuale di ricchezza dalle fasce alte corrisponde ad una controtendenza rispetto alla deleteria polarizzazione della ricchezza inizialmente citata e che non accenna a diminuire. Nel periodo 2006-2016 la quota di reddito nazionale disponibile lordo del 10% più povero degli italiani è diminuita del 28%, mentre oltre il 40% dell’incremento di reddito complessivo registrato nello stesso periodo è fluito verso il 20% dei percettori di reddito più elevato. Ciò rende molto “sostenibile” nel medio periodo l’applicazione dell’imposta.

Definire i Livelli Essenziali delle Prestazioni dei comuni e garantire delle risorse dignitose per attuarli da Nord a Sud è possibile, quello che ci vuole è solo la volontà POLITICA.

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