RIPRENDERE MARX OGGI. IL CONCETTO DI “LAVORO SFRUTTATO” COME ORIGINE DEI NOSTRI DRAMMI ECONOMICI

RIPRENDERE MARX OGGI. IL CONCETTO DI “LAVORO SFRUTTATO” COME ORIGINE DEI NOSTRI DRAMMI ECONOMICI

La spudorata attualità di Marx

“Sono entrati i tedeschi.. sono entrati i cinesi.. devo ridurre i COSTI”. Le intercettazioni dei dirigenti di Autostrade dominano la stampa. Azionisti e proprietari dell’azienda vivono di rendita con capitale accumulato, costringendo a tagliare sulla manutenzione perché vogliono i dividendi. Altro che “attrarre gli investitori”: c’è bisogno di CAMBIARE IL PARADIGMA ECONOMICO.

E’ ora di riflettere su come l’unica filosofia capace, lo scorso secolo, di opporsi radicalmente all’individualismo feroce sia stato il marxismo. Forse perchè, appunto, è una filosofia esistenziale dalla quale proviene poi un approccio economico.

La domanda che si pone Marx, come ricorda Riccardo Bellofiore, è in sostanza questa: quale è la condizione del lavoro in quella situazione sociale particolare in cui la società non si costituisce nel momento in cui gli esseri umani producono, ma posteriormente, NELLO SCAMBIO DI PRODOTTI IN QUANTO MERCI? Qual è, dunque, la condizione del lavoro quando gli individui, nel momento della sua erogazione, sono reciprocamente indifferenti, immediatamente separati, e la loro connessione sociale è demandata al meccanismo impersonale del mercato invece che essere implicita già nella stessa attività?

Categorie marxiste come la teoria del “valore-lavoro” (la quale è un’idealizzazione deliberata, che considera un mercato di perfetta concorrenza in cui il profitto dovuto a maggiore domanda del prodotto è messo fra parentesi) servono a FOCALIZZARSI su come i rapporti sociali sono creati a partire dal valore astratto della merce “qui-ed-ora”, invece di essere la merce in funzione della cooperazione umana nel lungo termine. Il lavoro-merce (la capacità lavorativa) viene retribuito per il suo valore di scambio – il minimo socialmente utile per mantenere funzionale un lavoratore – ma viene usato per il suo valore d’uso, cioè per la produzione che riesce a realizzare, la quale è scambiata per un altro valore di scambio (tutto questo teorizzato da Marx astraendo deliberatamente dagli aggiustamenti di prezzo dovuti alla competizione e alle asimmetrie del mercato, per far notare meglio la mercificazione del lavoratore intrinseca al processo di produzione). In questo tipo di società TUTTO il lavoro è “sfruttato”, si aliena cioè in altro da sè, diventa valutato non per la sua rilevanza nello sviluppo umano, o per le sue esternalità, o per i suoi effetti sociali a lungo termine, ma SOLO per il suo valore merceologico, che per definizione è una mera quantità, valutabile nel breve termine.

Che rilevanza ha questo? UNA RILEVANZA CONCRETA FONDAMENTALE. La mercificazione del lavoro, soprattutto subordinato, correlato all’individualismo imprenditoriale è la radice sociale di cose come la mancanza di partecipazione democratica nei luoghi di lavoro e quindi dell’antagonismo di classe, dunque della squilibrata distribuzione della ricchezza, dunque delle crisi di sovrapproduzione, delle crisi di debito privato, e simili. E, ovviamente, è radice dell’assenza di pianificazione organica dell’economia. L’atomismo fa sì che anche il capitalista, oltre il lavoratore, sia “alienato”. Siccome la somma di atomi non è MAI uguale all’INTERO di atomi che interagiscono fra di essi, ciò causa cose come l’avversione al rischio delle banche, il credit crunch, le bolle speculative e dei derivati basate su scommesse individuali che mercificano il “lavoro finanziario” e quindi il denaro, senza capire che (l’inevitabile) mancato realizzo di grosse aspettative di rendita da parte di finisce per avere grosso potere finanziario mette sotto ricatto l’intera società fino a scatenare, appunto, crisi di aspettative reciproche.

La visione Marxista del rapporto tra lavoratori come rapporto “tra merci” si applica bene anche alla questione ambientale, che rifiuta ancora di affrontare seriamente il tema dell’OBSOLESCENZA PROGRAMMATA. Una pratica esistente già negli anni ’30, ma che oggi è comune tra i produttori di alta tecnologia e contribuisce alla produzione eccessiva di rifiuti, inquinando più di quanto le nostre conoscenze ci permetterebbero di fare.
 
Perchè la nostra società è arrivata al PARADOSSO di far lavorare DI PIU’ le persone per produrre cose che potrebbero essere evitate producendo prodotti equivalenti che si logorino più tardi? Il problema è che sia il prodotto che il lavoro che lo produce sono visti, ancora, solo nel loro valore “merceologico”, ovvero nel valore di scambio che assumono qui-ed-ora per il privato e non nel valore d’uso che hanno – o avrebbero – per la comunità intera.
 
In una società basata sempre di più sulla RIPRODUCIBILITA’ dei prodotti (poichè ormai ogni innovazione viene immediatamente fatta propria dai concorrenti, a maggior ragione nell’era del digitale) e strutturata con rapporti economici puramente “merceologici” abbiamo, dal punto di vista del SINGOLO imprenditore, queste due alternative:
 
1 – Creare prodotti durevoli puntando su tale “qualità”, minimizzando il costo dei dipendenti per riprodurre la merce (es. per fare 100 articoli devo pagare 2 dipendenti, per farne 1000 con lo stesso impianto invece 7). Ma in questo caso possono accadere delle tensioni:
 
A – Se la maggioranza agisce così, il costo minimo del prodotto riproducibile si appiattisce molto sulla filiera del costo della sua creazione iniziale da parte dell’innovatore iniziale, nessuno può evitare un gioco al ribasso dei prezzi dei riproduttori e dei venditori, che vedono abbassarsi dunque i profitti e l’incentivo a investire. Si perde il “lucro” sul lavoro dell’operaio malamente retribuito. Questa è una rilettura in chiave XXI secolo della “caduta del saggio di profitto” di Marx, che tuttavia non è l’unica teoria della crisi e include variabili e controtendenze, come nella realtà.
B – Se solo pochi agiscono così, invece, il produttore guadagnerebbe troppo poco per permettersi i riacquisti necessari per rinnovare beni di consumo e capitale creato con obsolescenza programmata dagli altri. Oppure, resterebbe fuori mercato a causa del fatto che i diretti concorrenti avrebbero maggiori ricavi da investire in logistica o eventuali innovazioni. 
 
2 – Per fuggire dalle tensioni sopra descritte, o per mera ingordigia, pratica l’obsolescenza programmata, preferibilmente (come accennato) lucrando sulla differenza tra salari dei propri dipendenti e valore prodotto. Qua la crisi è possibile per la sovrapproduzione oppure per l’eccessivo debito privato dei dipendenti, che non può accumularsi in eterno.
 
Tutte queste contraddizioni traggono linfa dal fatto che ogni imprenditore individuale agisce GIUSTAMENTE in maniera miope, non potendo fare altrimenti.
Non ha la possibilità di coordinare con gli altri un piano di investimenti reciproco in innovazioni, dunque appena vede il saggio di profitto calare “si ferma”.
Non ha la possibilità di coordinare con gli altri un piano per cui nessuno operi l’obsolescenza e quindi di evitare il pericolo di rimanere col cerino in mano in caso di strategia alternativa.
Non ha la possibilità di calcolare quanto dei salari che paga “torneranno” a lui indietro come domanda dei suoi prodotti.
Tutto questo lo può fare al massimo una comunità socialista.
 
La logica individualistica della MERCE da far funzionare qui-ed-ora come unico parametro di rapporto sociale corrisponde dunque alla mancanza di pianificazione razionale collettiva della produzione. Una razionalità che coinvolge anche il nostro rapporto con l’ambiente e lo sforzo lavorativo minimo per mantenere una certa qualità della vita.
 
Una società socialista è quella che punta alla visione a lungo termine e al calcolo delle esternalità cancellando la logica del profitto del “singolo” che, per necessità di sopravvivenza privata, NON PUO’ essere singolarmente interessato alla tutela dell’intero ambiente, umano o naturale. Tale società impedirebbe, inoltre, di far ricadere sui lavoratori il peso della “necessità di minor lavoro”, applicando il principio “lavorare meno, lavorare tutti”.

Al di là degli errori “previsionali” degli scritti di Marx – mai peggiori di quelli dei liberoscambisti – è dunque la riflessione sul LAVORO MERCE (compreso il “lavoro finanziario” di oggi) proveniente dalla sua filosofia a costituire la prima ed ineguagliabile critica radicale al mondo contemporaneo, critica solo accarezzata da altri grandi economisti-filosofi quali Keynes e Minsky, i quali non hanno mai rinunciato alla base capitalistica delle loro proposte, rendendo solo evidente – i loro adepti – come un sistema anarchico come il liberoscambismo possa mantenersi solo ricorrendo a dosi saltuarie e alterate di COLLETTIVISMO (vedi piano Marshall, bail.out, QE) .

La rendita finanziaria preferita allo sviluppo sociale tipica di chi ha gestito il ponte Morandi degli ultimi anni, il suo breveterminismo, si situa esattamente dentro questa tendenza a valutare il prodotto non per la sua rilevanza umana ma solo per il suo calore merceologico. Il socialismo, a rigor di logica, è esattamente la tendenza opposta: il prodotto e la merce dovrebbero essere il RISULTATO dello spirito e degli obiettivi di una COMUNITA’ precisa e intera, non questa comunità il risultato dello scambio delle merci.

All’aziendalismo e all’individualismo metodologico che ormai pervade anche la gestione dei servizi pubblici come la sanità si possono far risalire drammi contemporanei come le morti sul lavoro.

Le morti su lavoro, in Italia aumentano: sono 3 al giorno. Strage negli ultimi 7 mesi: 599 vittime. “Le leggi ci sono. Ma mancano i controlli”. E i controlli mancano per colpa di REGIONALISMO e AUSTERITA’, oltre che per mancanza di potere organizzativo dei lavoratori nelle aziende. Infatti è alle regioni che è affidato un compito così importante, e alla loro sanità spesso economicamente disastrata a causa di blocchi del turnover e aziendalismo. Significativo su ciò quello che dice Paolo Pascucci, prof. ordinario di diritto del lavoro all’Univ. di Urbino:

«Il nuovo Titolo V [la riforma federalista] tiene conto che, grazie alla riforma sanitaria del 1978, la tutela della salute dei lavoratori ha cessato di rappresentare una questione a se stante per divenire un aspetto fondamentale della tutela della salute delle persone in un’ottica di prevenzione. Ed è alle Regioni, tramite le ASL, che la legge affida la programmazione e lo svolgimento delle attività di prevenzione, anche nei luoghi di lavoro, così come sempre alle Regioni lo stesso art. 117, comma 3, Cost. attribuisce competenza concorrente sia in materia di salute e sicurezza sul lavoro sia più in generale per la tutela della salute: due competenze, dunque, perfettamente simmetriche, strettamente complementari e, a ben guardare, assolutamente non disgiungibili, pena lo stravolgimento dell’intero quadro ordinamentale della salute. In questi termini va letto anche “il necessario coinvolgimento del settore sanitario nell’attività di controllo”, che può “essere considerato come principio fondamentale in materia di salute e sicurezza del lavoro”. […] Ne consegue che un eventuale completo riaccentramento in capo ad organi statali delle competenze sulla vigilanza, talora ipotizzato per far fronte ai problemi dovuti alle difficoltà operative di alcune Regioni, altererebbe irrimediabilmente quel legame tra prevenzione e vigilanza oggi incardinato in capo alle Regioni ed alle loro strutture operative, a meno che non si intenda riaccentrare in capo allo Stato… anche l’intero sistema sanitario e le connesse funzioni di prevenzione! [magari!!]».

I TECNICI DELLA PREVENZIONE, dipendenti dell’ASP, coloro che ispezionano i luoghi di lavoro per garantirne la sicurezza, e la vita dei lavoratori, sono sottodimensionati e in balia degli scellerati tagli alle assunzioni di cui soffre la sanità in generale e i bilanci regionali in particolare. Una carenza che rende la frequenza media dei controlli uno ogni venti anni, creando una disparità tra lavoratori di regioni ricche e regioni povere, in contrasto palese col dettato Costituzionale.

Anche la tutela della vita sul lavoro passa per l’abbandono dell’aziendalismo sanitario, del regionalismo e la ripresa degli investimenti Statali oltre gli irrazionali limiti imposti dai mercati privati del credito. Oltre, ovviamente, che per il controllo operaio dentro i luoghi di lavoro.

Una Rivoluzione per il lavoro stagionale

I soprusi nei riguardi dei lavoratori stagionali sono tra le maggiori piaghe delle zone turistiche Italiane. Vera schiavitù moderna che conduce migliaia di giovani, laureati e non, al collasso psicologico. Tale emergenza sociale si fonda sulla mancanza di trasparenza che caratterizza spesso gli imprenditori stagionali, sulla esiguità di controlli e denunce, sul timore e l’isolamento del dipendente stagionale. Ma non devono essere sottovalutati fattori come l’eccessiva flessibilità nella forma contrattuale stagionale, che concede al datore di lavoro un potere negoziale enorme nella possibilità di assumere un giovane per qualche settimana e non rinnovare il rapporto di lavoro se il dipendente non asseconda ogni vessazione o impiego arbitrario. Anche in questo campo, dimenticato spesso dal legislatore nazionale, l’individualismo imprenditoriale e i rapporti di forza sbilanciati verso il datore di lavoro rendono i lavoratori subordinati alienati rispetto a quella che dovrebbe essere un’esistenza piena, stabile, meritocratica, e attenta alla partecipazione collettiva alle scelte dell’impresa. E’ urgente equiparare la disciplina dei contratti stagionali almeno a quella dei contratti a termine e a tempo indeterminato ordinari, com’è urgente un potenziamento dell’Ispettorato del Lavoro. Per questo sarebbe necessario pretendere:

–           Nel rispetto nelle norme relative al periodo di prova, il quale potrà essere modulato liberamente dalle parti con il limite però che non potrà, in nessun caso, essere disposto di una durata superiore ai due mesi, l’utilizzo di una causale verificabile nel caso in cui il lavoratore venga riassunto con contratto stagionale entro 10 giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a 1 mese, oppure entro 20 giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore a 1 mese. In caso di mancanza della causale, dopo un anno dalla stipula del primo contratto o al primo rinnovo, un’assunzione stagionale viene a prendere la forma di un contratto a tempo indeterminato che contempli la particolare ciclicità e intermittenza del lavoro stagionale.

–           La trasformazione del contratto stagionale in forma indeterminata in ogni caso, dopo che siano trascorsi 24 mesi dalla stipula del primo contratto stagionale, purché il lavoratore abbia prestato attività lavorativa almeno per un mese ad ogni intervallo di 12 mesi e abbia realizzato almeno 6 mesi di prestazione lavorativa totale. Alle eventuali chiusure anticipate giustificate del contratto si applicano quindi le norme del contratto a tempo indeterminato.

–           L’aumento del 50% del personale dell’Ispettorato del Lavoro, il raddoppio delle attuali 74 sedi e l’abolizione del divieto di maggiori oneri per lo Stato per il finanziamento dell’Ispettorato; la creazione di un sistema pubblico con supporto informatico e dotato, grazie al raddoppio delle sedi, di sale adibite alle riunioni, per l’iscrizione e la coordinazione dei lavoratori stagionali regionali, e la preparazione di istanze e denunce comuni prodotte sia attraverso rappresentanza libera sia attraverso organizzazione sindacale.

–           Il salario minimo orario intercategoriale stagionale di 10 euro l’ora

–           Che il calcolo della NASpI tenga conto dei periodi coperti da contributi figurativi che hanno già dato luogo al pagamento di prestazioni di disoccupazione

Tutto questo darebbe ai lavoratori una legittima stabilità e costringerebbe gli imprenditori stagionali a investire di più in tecnologia e innovazione, e meno in gare al ribasso nei salari, per essere competitivi. E’ necessario imporre la visione che il profitto ha senso solo se la società può crescere i maniera sana e armonica.

La forza politica e ideologica per imporre delle richieste così apparentemente radicali se confrontate con il sistema di rapporti di forze attuale può ben darla la ripresa piena di una filosofia incisiva come il marxismo. La caratteristica di tale filosofia sarebbe, ancora, l’accento sulla lotta all’individualismo sociale e al rovesciamento di fini e mezzi che ha reso la maggior parte dei luoghi di lavoro un PRODOTTO della logica atomistica della circolazione di merci, e non viceversa. Tutto questo è figlio della mercificazione del lavoro e quindi del suo “sfruttamento”, nel senso non semplicistico di estrapolazione di esso dal suo contesto “naturale” interno ad una comunità solidaristica che valuta ogni aspetto della reciprocità in maniera olistica, al fine di un suo utilizzo irriconoscente o, meglio, “disconoscente”.

 

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