LA LOTTA DI CLASSE E’ LA LOTTA DI TUTTI – come l’aumento del potere delle fasce basse darebbe un impulso all’intera economia

LA LOTTA DI CLASSE E’ LA LOTTA DI TUTTI – come l’aumento del potere delle fasce basse darebbe un impulso all’intera economia

SALARI FERMI DA 25 ANNI La curva dei redditi da lavoro è aumentata dagli anni ’70 fino al 1992, grazie alle lotte del movimento operaio. Ma dopo lo scioglimento del PCI e la trasformazione del sindacato da conflittuale/di classe in concertativo inizia la grande stagnazione che dura sino ad oggi. Volano solo gli stipendi dei supermanager (sempre più alti ed in numero ristretto) mentre i salari, i salari di tutti restano al palo.

Il punto è che non basta solo una lotta frammentata per avere “il minimo sindacale” per la dignità umana, come il salario minimo e la scala mobile. Serve un rovesciamento del paradigma che vuole il concetto di “democrazia” sacro ovunque tranne nel luogo più importante della produzione: l’azienda. Perchè non dovrebbe essere il consiglio dei lavoratori (ovviamente con voti pesati a seconda del contributo di ognuno alla crescita dell’impresa) a decidere come produrre, come investire e come distribuire il profitto?

A chi dice che così la produttività ne risentirebbe (ma poi, perchè? La divisione dei ruoli specialistici interni rimarrebbe – manager, contabile, artigiano, ecc..) basterebbe rispondere che vari studi come Craig and Pencavel (1995) e Fakhfakh et al (2012) hanno dimostrato addirittura la superiore produttività delle cooperative (quelle VERE, non quelle a cui ci hanno abituati le cronache recenti) rispetto alle imprese classiche in Francia e alcune zone degli Usa. Tutto questo pensando che le cooperative sono ovviamente penalizzate dalla competizione con le altre aziende che, operando al ribasso sui salari, raggiungono fette maggiori di mercato abbattendo leggermente l’incentivo a produrre (e quindi la produttività) delle altre.

In ogni caso, l’Italia ha raggiunto il massimo di produttività e potenza industriale quando le tutele del lavoro erano ai massimi: L’istituto del contratto a termine, così, viene per la prima volta disciplinato dalla l. n. 230/1962, definendo il medesimo contratto di lavoro come “eccezione” rispetto al contratto a tempo indeterminato . La legge consentiva al datore di lavoro di impiegare tale tipologia contrattuale solo ed ESCLUSIVAMENTE nei casi in cui la specialità dell’attività lavorativa richiede una prestazione di durata limitata. L’impostazione vincolistica emerge anche nell’eventuale proroga del termine consentito UNA sola volta e a determinate condizioni: consenso del lavoratore; durata non superiore al contratto iniziale; stessa attività lavorativa ed eccezionalità della proroga ammessa solo per esigenze contingenti ed IMPREVEDIBILI. Tutto smantellato dagli anni ’90.

Pensate che il “rivoluzionario” decreto dignità ammette 4 proroghe e una giustificazione solo dopo i primi 12 mesi.

Inoltre, l’idea di salario minimo è oggi sventolata da diversi personaggi come una icona utilizzata ad hoc, senza elaborare una teoria seria sulla sua vera applicazione e sul contesto necessario per applicarla. Ursula von der Leyen ha dichiarato le linee guida che vorrebbe seguire tra cui figura il salario minimo Europeo. Peccato che le asimmetrie nei differenziali di inflazione che si creerebbero (non tutti i paesi reagirebbero allo stesso modo in termini di crescita aggregata di salari) accentuerebbero le asimmetrie commerciali nell’ambito di una moneta unica. Solo con differenti valute, che ammortizzano i differenti tassi d’inflazione re-indirizzando i consumi verso il mercato domestico nei paesi che perdono troppa competitività, si può parlare di salario minimo. Troppo pericoloso per via della “svalutazione che comprometterebbe l’aumento dei redditi”? Sciocchezze. In UK, in 3 anni di svalutazione del 20% della sterlina sull’euro e di poco meno sul dollaro (mai veramente recuperata) la crescita dei salari nominali è stata pari o maggiore dell’inflazione. L’ultimo anno ha superato il 3%, con un’inflazione di 2,5% – e l’Uk non fa nessuna seria politica attiva di re-industrializzazione, oltre non essere certamente un paese di tendenze socialiste.

E’ importante ricordare che sta ricevendo sempre più riconoscimenti accademici la teoria per cui sia l’aumento stesso dei salari a incentivare la produttività (e, quindi, un’ulteriore aumento salariale “giustificato”).

Più nello specifico, è empiricamente dimostrato che i costi dell’unità di lavoro sono più alti nei paesi meridionali dell’europa (come Portogallo, Italia, Spagna e Grecia), cioè nei paesi dove i salari sono minori. Questo risultato può essere interpretato alla luce della teoria salariale di Kaldor [secondo cui l’aumento dei salari stimola la domanda e quindi la produzione e la produttività, oltre l’innovazione dell’imprenditore che non può puntare facilmente al taglio delle retribuzioni per incrementare i propri profitti]. L’idea che l’aumento dei salari stimoli la produttività del lavoro e i profitti ha una lunga tradizione nella storia del pensiero economico (cf. Petridis, 1996; Forges Davanzati, 1999), ed è riconsiderata in alcuni sviluppi recenti dell’economia post-keynesiana (ad esempio, Lavoie,1992). Da Adam Smith ad Alfred Marshall, un gran numero di economisti si convinse che l’aumento dei salari possa favorire l’aumento della produttività del lavoro. Francesco Saverio Nitti, un economista italiano dell’inizio del 20° secolo, può essere considerato uno dei maggiori riferimenti di questo approccio (cfr. Nitti, 1894; Forges Davanzati e Patalano, 2015).

Anche per questo fa rabbia che Borghi, presidente della Commissione Bilancio alla Camera, abbia dichiarato che le parti sociali – Confindustria e sindacati – sono tutte d’accordo che il SALARIO MINIMO non vada bene perchè, «a ragione, sostengono che il salario “convergerebbe su quello”».

Secondo i sindacati, secoli di lotte sociali tutte sbagliate, quindi. Ma invece dei redditi da capitale, perchè non ne parliamo? Forse più che per il salario minimo è colpa loro, di persone che grazie ad una pura rendita di posizione economica e non grazie all’effettiva innovazione prodotta assorbono ricchezza dall’economia per farla ristagnare e circolare nei loro circuiti altolocati, forse è colpa di queste persone, che gli investimenti (e quindi la produzione e quindi la produttività e quindi i salari) non vedono un incremento?

Nel Regno Unito i manager esecutivi delle compagnie dell’FTSE 100 percepiscono 130 volte lo stipendio del dipendente medio. Il divario retributivo era ‘appena’ 47:1 nel 1998. Una ricerca condotta da Oxfam in Spagna ha rilevato come i top-manager delle maggiori 35 società quotate in borsa percepiscano in media emolumenti superiori di 207 volte lo stipendio minimo corrisposto all’interno della propria compagnia di riferimento.

I vincitori del sistema economico globale vanno cercati anche fra i percettori di redditi da capitale. Si tratta di forme di reddito che interessano una percentuale estremamente ridotta dei cittadini. La proprietà di azioni è ad esempio concentrata nelle mani di una fascia relativamente limitata di persone. Negli Stati Uniti l’1% più ricco della popolazione possiede il 40% del mercato azionario. Nel 2015 su scala globale il volume dei dividendi (redditi da capitale) corrisposto ai proprietari di azioni (fortemente concentrati al vertice della piramide della ricchezza) ha toccato quota 1200 miliardi di dollari. Questo crescente divario rafforza anche la capacità di condizionamento da parte di pochi dei processi decisionali pubblici, indebolendo sempre più il potere di fatto dei lavoratori comuni in favore dei percettori di alti redditi e possessori di ricchezza.

La lotta di classe oggi esiste ancora ed è molto più urgente di qualche decennio fa. E’ la lotta tra chi produce e con le sue meritate retribuzioni porterebbe vitalità agli scambi e chi scommette con la ricchezza per ottenere altra ricchezza attraverso bolle azionarie, stock options, derivati, bolle e compravendite di derivati (la così detta economia “di carta”, che non intercetta mai la produzione reale ma produce soldi scommettendo sul valore di titoli fatti apposta per scommettere) senza investire in innovazioni e benessere.

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