PERCHE’ GLI OSPEDALI CADONO A PEZZI – FEDERALISMO, SANITA’ E QUESTIONE MERIDIONALE

PERCHE’ GLI OSPEDALI CADONO A PEZZI – FEDERALISMO, SANITA’ E QUESTIONE MERIDIONALE

Per capire perché gli ospedali del Sud sono così carenti, perché le loro ASL sono tra le ultime in Italia e perché, in generale, la qualità della sanità meridionale è pessima, non basta tirare in ballo il clientelismo di chi negli anni ha scelto i dirigenti e o la ghettizzazione dei reparti. C’è bisogno di una visione a livello nazionale che ripercorra i tre fattori scatenanti:

1 – Entrata in vigore del federalismo fiscale

2 – Parametri sfavorevoli alla distribuzione dei soldi ai sistemi sanitari più poveri

3 – Inattualità di alcune leggi che dovrebbero perfezionare federalismo e parametri

Il federalismo fiscale

Il federalismo non è stato altro che un trasformare le regioni più meridionali da “più deboli” a “più colpevoli”. Vediamo come. Fino al 1997, le risorse destinate alla sanità si ritrovarono a crescere senza problemi e le regioni erano prive di vincoli di natura finanziaria. Il finanziamento della sanità era retto dai principi della finanza derivata e da trasferimento, con una forte centralizzazione a livello statale delle scelte di spesa, al fine di garantire uniformità ed effettività alla tutela del diritto alla salute. Il deficit di tutte le regioni gravava sullo stato ed era coperto con mutui bancari, Btp o Cct.

Come scrivono Caruso e Dirindin, già negli anni Novanta il rigore imposto dal risanamento della finanza pubblica e la responsabilizzazione delle regioni sulla spesa sanitaria hanno indotto il legislatore a introdurre specifiche regole per il finanziamento della sanità delle regioni. La legge n. 662 del 23/12/1996 indica gli «elementi» da considerare in sede di riparto, per la cui pesatura rinvia a successivi provvedimenti: «popolazione residente, frequenza dei consumi sanitari per età e per sesso, tassi di mortalità della popolazione, indicatori relativi a particolari situazioni territoriali ritenuti utili al fine di definire i bisogni sanitari delle regioni ed indicatori epidemiologici territoriali» (art. 1, c. 34). È evidente l’intenzione del legislatore di superare l’indeterminatezza del precedente sistema, privo di riferimenti oggettivi, indicando il «bisogno sanitario» quale principio guida nell’allocazione delle risorse.

La strada verso l’accanimento sui “messi peggio” cominciò con un maggior peso piazzato sulle famiglie. Come scrive V. Mapelli, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore, la riforma di Vincenzo Visco del 1997 trasformò nell’Irap i contributi dei datori di lavoro al sistema sanitario (aliquota 4,25 per cento) e nell’addizionale regionale Irpef (0,9 per cento) quelli dei lavoratori, favorendo le imprese a discapito delle famiglie. Furono le prime due imposte “regionali”.

Una seconda riforma fiscale, nel 2000, ridimensionò i trasferimenti classici a favore della fiscalità regionale e destinò parte dell’IVA, oltre tributi minori quali le accise sui carburanti, ad alimentare un fondo perequativo nazionale, per coprire la differenza tra il fabbisogno regionale di spesa e il gettito delle nuove imposte.

Il Servizio sanitario nazionale risulta oggi finanziato da fonti diverse, anche se IVA e Irap rappresentano il 70 per cento del totale:

Ticket sanitari

IRAP (Imposta regionale sulle attività produttive);

Addizionale regionale all’IRPEF;

ARISGAM – Addizionale regionale all’accisa sul gas naturale;

Compartecipazione regionale all’accisa sulle benzine per autotrazione;

Compartecipazione regionale all’IVA versata dai consumatori finali nel proprio territorio

e altre imposte minori.

La compartecipazione regionale al gettito dell’IVA, istituita dal D.Lgs. 56/2000, entra come detto nel meccanismo di perequazione. Si noti che lo sforzo fiscale autonomo e i “trasferimenti perequativi” dello Stato non sono per tutti uguali. C’è chi ha più possibilità di usufruire di risorse proprie e chi deve sperare ogni anno nella bontà del CIPE e della Conferenza Stato-Regioni. Ad esempio, nel 2017 in Lombardia il contributo fiscale autonomo era del 40 per cento, in Lazio del 37 per cento, in Emilia-Romagna del 35 per cento, mentre in Calabria e Basilicata solo dell’8 per cento e in Campania e Puglia del 16 per cento. Invece di mantenere un finanziamento universalistico e migliorarlo con uno studio preciso dei livelli essenziali di assistenza e con la loro applicazione reale, col federalismo si è scelto insomma di porre il fardello del finanziamento e della gestione della sanità sulle regioni, rendere più macchinosa la perequazione ex post e “responsabilizzare” (si legga “bastonare”) le regioni che, anche a causa dell’epoca dell’austerità che avanzava per entrare nel “mercato unico” (dal 1993 il governo Italiano drena con le tasse molto più di quanto spende in servizi), non fossero riuscite a rispettare determinati vincoli.

Con la legge finanziaria per il 2005 (l. n. 311 del 2004), si sono infatti introdotti i “ piani di rientro”. Con tali provvedimenti le Regioni concordavano con lo Stato l’assunzione di particolari obblighi tesi al ripiano del disavanzo di bilancio in sanità, adottando gli strumenti operativi idonei allo scopo. Come forte deterrente si è previsto, inoltre, nel caso di mancato rispetto del piano (o di sua non presentazione), la “pena” dell’automatica applicazione delle aliquote massime per l’Irap e l’addizionale Irpef; a ciò si aggiungeva l’attivazione di procedure sanzionatorie statali, quali il commissariamento della Regione, con la nomina di un commissario ad acta, il blocco del turnover senza consenso ministeriale e l’obbligo di forzare la mano sui tagli, come capitato alla Calabria negli ultimi 12 anni.

Ma non è tutto: come spiega Leonzio Rizzo dell’Università di Ferrara, il totale della compartecipazione IVA (la “perequazione”) è stato ogni anno diviso in due fondi, uno distribuito secondo i consumi finali (che ovviamente favorisce chi ha storicamente un sistema che offre più servizi) e l’altro secondo una formula di perequazione che tiene conto del fabbisogno e della differente dotazione di base imponibile Irap di ogni Regione. Era inizialmente previsto che per i primi due anni (2002 e 2003) fosse sottratta una quota del 5 per cento del primo fondo per sommarla al secondo; tale quota sarebbe stata del 9 per cento ogni anno a partire dal 2004 fino al totale azzeramento del primo fondo, previsto per l’anno 2013. Il fondo finanziato dalla compartecipazione IVA, da allocare secondo i consumi finali, è stato di fatto sempre distribuito in base alla spesa storica.

La contrattazione all’interno della conferenza Stato-Regioni, con l’accordo di Villa San Giovanni del 2005, ha reso la transizione della distribuzione del fondo dalla spesa storica al nuovo criterio molto più graduale di quella inizialmente prevista, con il risultato che, nel 2012, l’80 per cento della compartecipazione Iva era ancora distribuita in base al criterio della spesa storica.

Sintetizzando: maggiore austerità fiscale nazionale, maggiori pressioni e punizioni fiscali sulle regioni deboli e redistribuzione inadeguata.

I criteri di distribuzione dei fondi

Ma vediamo come è distribuita quella parte di fondo utilizzata per colmare i fabbisogni locali. Come rileva la Fondazione Farmafactoring, dal 2013 tale fabbisogno è determinato annualmente, per il triennio successivo, “in coerenza con il quadro macroeconomico complessivo e nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica”. Detto in parole povere: è l’assistenza a dover essere in funzione delle politiche fiscali e non viceversa, come dovrebbe essere in un paese che per investire sul futuro mette al primo posto lo sviluppo del cittadino.

Per determinare il finanziamento da destinare alla singola regione si scelgono 3 regioni-campione, si vede la spesa usata per finanziare la loro sanità e si calcola in proporzione alla popolazione quanto occorre, a chi ha meno ricavi con le imposte, per rispettare in Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). O, almeno in teoria, dovrebbe essere così. Le regioni benchmark sono scelte tra le cinque, appositamente individuate con decreto, che hanno garantito i LEA in condizione di equilibrio economico e di efficienza ed appropriatezza. Già qui si potrebbe sostenere che sia discutibile appioppare il modello di spesa delle regioni più “moderne” a chi ha economie di scala peggiori, se l’obiettivo è raggiungere gli stessi fini. Vengono, ad ogni modo, confermati i macrolivelli di assistenza tra i quali dovrà distribuirsi la spesa sanitaria secondo le seguenti percentuali (al cui rispetto dovranno adeguarsi le singole regioni): 5% per l’assistenza sanitaria preventiva (ambiente di vita e di lavoro), 51% per l’assistenza distrettuale e 44% per quella ospedaliera. Per ognuno dei tre macrolivelli si calcola il costo standard come media pro capite pesata per età. Si noti che il criterio della popolazione pesata e per fascia d’età (più anziani uguale più fondi) è fuorviante poiché si dovrebbe calcolare, piuttosto, il tasso di morbilità (diffusione di malattie) di un’area. Se una regione ha meno anziani perché ci sono più malattie e meno cure e si muore prima, paradossalmente, la regione riceve meno fondi.

A oltre sei anni dall’approvazione del D.Lgs 68/2011, che aveva previsto queste  regole che perlomeno darebbero un criterio per allocare i fondi secondo un certo fabbisogno, la prassi rimane comunque, come già accennato, quella di distribuire il fondo sanitario usando il criterio della spesa storica, eventualmente corretto con alcuni aggiustamenti marginali che vengono definiti, di anno in anno, in sede di Conferenza Stato-Regione. Sebbene possano essere tante le ragioni per cui a oggi, dopo oltre sei anni ancora non siano state implementate le nuove regole previste dal D.Lgs 68/2011, la principale rimane che l’applicazione di tale metodo potrebbe cambiare in modo sostanziale un equilibrio di status quo faticosamente raggiunto. In altre parole: il problema è sempre la necessità di anteporre “le regole di bilancio” alla salute dei cittadini e all’assunzione di nuovi medici, come se questo non influenzasse la crescita umana e quindi economica.

Ultimi problemi e le conseguenze di tutto

Non è finita qui: altre imprecisioni tra i provvedimenti compromettono l’adeguato finanziamento della nostra sanità. Per esempio, lo scorso anno la deputata Dalila Nesci ha presentato una risoluzione in commissione affari sociali dove ha fatto notare che «per determinare i parametri di riparto del fondo sanitario 2018 e al fine di individuare le tre regioni benchmark il Ministero della salute, in data 29 maggio 2018, ha trasmesso alle regioni una nota metodologica recante l’elencazione degli indicatori in base ai quali per calcolare la qualità ed efficienza,  per il riparto 2018, siano utilizzati indicatori di qualità riferibili all’anno 2015 (ben tre anni prima) o comunque non armonizzati con il successivo Patto per la salute 2014-2016 che prevede anche la definizione dei requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi dei presidi territoriali/ospedali di comunità e con successivo decreto ministeriale n. 70 del 2015 che, come è noto, ha ridefinito esclusivamente gli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi relativi all’assistenza ospedaliera». Insomma, oltre tutto il resto, abbiamo criteri antiquati per stabilire la ripartizione dei fondi.

La Calabria ad esempio – se ricevesse una somma proporzionata al suo fabbisogno reale – non sarebbe commissariata. Non solo: dovrebbe ricevere anche più fondi rispetto alla media nazionale. Infatti, secondo Health Search (2012) questi sono i malati che la Calabria ha in più rispetto al resto d’Italia (in percentuale della popolazione e secondo le malattie): +1,26 ulcera gastrica, +1,3 diabete mellito; + 0,64 ipertensione arteriosa; + 0,1% infarto del miocardio; + 2,55% artrosi; +0,24 malattie del cuore; +0,24 ictus cerebrale; +0,18 cirrosi epatica; +0,57 osteoporosi; +1,54 broncopneumopatia cronica ostruttiva; +1,22 funzionalità della tiroide.

Invece, secondo il rapporto Osserva Salute 2017, la media Italiana di spesa sanitaria pro capite 2016 è di 1845 euro (già tra le più basse nei paesi OCSE) mentre quella Calabrese è di 1741 euro, più di 100 euro a testa in meno all’anno. Tutto ciò è tra le cause dei 301 milioni di euro di mobilità passiva del 2017.

Il direttore generale reggente dell’ASP di Vibo Valentia Elisabetta Tripodi spiega poi le ulteriori conseguenze dei tagli alla spesa pubblica, all’istruzione e alla sanità pubblica degli ultimi anni, che non hanno permesso a quest’ultima di mantenere il passo con l’invecchiamento della popolazione: «anche se la nostra ASP è sana a livello finanziario, alcune tipologie di specialisti non riescono a reperirsi sul mercato: il problema nasce dai pochi posti nelle borse di specializzazione. I pochi specialisti che ci sono non scelgono l’azienda pubblica perché è meno conveniente (paghe più basse) e più rischiosa (attrezzature vecchie e più rischio di essere denunciati per errori, anche a seguito della legge Gelli che nel 2017 ha potenziato la responsabilità penale dei medici). Oppure scelgono le grandi aziende ospedaliere, le poche efficienti e legate alla ricerca universitaria». La mancanza di personale in graduatoria in seguito all’assenza di concorsi negli ultimi anni completa la cornice.

Questi i motivi, in una sintesi veramente estrema, delle carenze sanitarie della nostra regione. Sta al lettore trarne le conseguenze nella valutazione politica di alcune scelte che sono state fatte. Di seguito un breve cenno a come tutto ciò si ripercuote sull’ospedale di Tropea (VV), con la mancata applicazione, persino, del decreto commissariale.

[scheda: posti previsti per Tropea dall’ultimo decreto commissariale e stato dei fatti]

Ortopedia: 10 posti letto con 6 medici, 12 infermieri e 4 Oss. Attualmente è presente un ambulatorio solo per 2 mattine alla settimana.

Medicina Generale: 20 pl con 6 medici, 13 infermieri e 3 Oss. Attualmente presenta 3 medici e 12 posti letto.

Chirurgia: 10 pl con 6 medici, 6 infermieri e 4 Oss. Attualmente il reparto è inesistente, di recente hanno attivato l’ambulatorio una volta alla settimana.

Geriatria con 10 pl, 1 medico, 6 infermieri e 3 Oss. Attualmente non è esistente.

Oncologia medica con 8 postazioni per chemioterapia, 3 medici, 4 infermieri e 5 Oss. Attualmente vi sono 3 medici, 4 infermieri ed 1 Oss.

Pronto Soccorso, con 3 postazioni con OBI, 6 medici, 12 infermieri e 3 Oss. Attualmente i medici sono a tempo determinato, con il rischio perenne che il personale sanitario abbandoni il servizio per altre sedi.

[Appendice eventuale: problemi ulteriori]

C’è un particolare – fra i tanti – di cui nessuno parla: l’esistenza degli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico e di come la loro presenza sia iniqua e ineguale. Cosa sono gli IRCCS?

Sono ospedali di eccellenza che perseguono finalità di ricerca, «prevalentemente clinica e traslazionale», ciò conferisce loro il diritto alla fruizione di un finanziamento statale (che va ad aggiungersi a quello regionale) finalizzato allo svolgimento della attività di ricerca relativa alle materie riconosciute. Lo sono il Gemelli, il Regina Elena, il Gaslini. A questo (giusto) “vantaggio” finanziario fa però da contraltare lo svantaggio delle Aziende Sanitarie che, senza abbastanza fondi per garantire i LEA, vedono i loro pazienti emigrare.

Inoltre, gli IRCCS pubblici sono «enti pubblici a rilevanza nazionale sottoposti al controllo regionale e alla vigilanza del Ministero della salute. Al Ministro spetta la nomina del direttore scientifico degli IRCCS pubblici nell’ambito di una terna di candidati selezionata da una apposita commissione». Abbiamo, dunque, anche il privilegio (finora esclusivo) di non aver i propri vertici alla mercé di clientelismo politico regionale. Essendo enti di diritto pubblico, sono gestiti da Fondazioni e, come dice il prof. Ettore Jorio, «su essi (fortunatamente) non incide la “capacità imprenditoriale” delle aziende di salute di riferimento».

Al fatto che Lazio e Lombardia abbiano la stragrande maggioranza dei 51 IRCCS (pubblici o privati) consegue una mobilità passiva (4,9 miliardi nel 2017) che arricchisce le suddette regioni a discapito di quelle del Sud. La Lombardia «ne conta ben 18, drenanti la fetta maggiore del fondo sanitario regionale meneghino, che attraggono una mobilità di 800 milioni annui. Segue il Lazio (300 milioni), l’Emilia-Romagna (350 mln) e la Liguria (60 mln). Un maggior introito che permette a tali regioni di godere di fatto di maggiori risorse in proporzione alla popolazione» (E. Jorio).

Il Sistema Sanitario Nazionale, se vuole essere equo ed efficiente, può essere solo abbandonare l’aziendalismo (con aziende costrette a lesinare sulle risorse e gestite da businessmen vicini alla politica locale) e trasformarsi pian piano in una Agenzia di Stato, con graduatorie e concorsi pubblici trasparenti e un bilancio in funzione dei LEA – e non con i LEA in funzione del bilancio.

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