LA FINANZA CONTINUA A DISSANGUARCI. VINCOLARE I CAPITALI VERSO LA CREAZIONE DI BENESSERE

LA FINANZA CONTINUA A DISSANGUARCI. VINCOLARE I CAPITALI VERSO LA CREAZIONE DI BENESSERE

Morya Longo ha oggi riportato sul Sole24Ore, sotto forma di dati analitici, quello che era il sentore di chiunque avesse una conoscenza sufficientemente critica del sistema finanziario attuale.  Secondo i dati di S&P Market Intelligence, infatti, «le imprese quotate hanno pagato in questi ultimi 8 anni la bellezza di 137,7 miliardi di euro in dividendi agli azionisti, mentre hanno raccolto attraverso lo sbarco sul listino (Ipo) e aumenti di capitale solo 88,3 miliardi di euro (dati di Borsa italiana)». Il sistema borsistico si confermerebbe come una macchina di accumulo della rendita per chi usa i capitali di cui dispone per produrre principalmente altra rendita attraverso ulteriori scommesse in strumenti finanziari complessi come stock option, derivati, leve finanziarie, swap, speculazione valutaria. E le fasce sociali protagoniste sarebbero quelle che meno di tutte utilizzano il proprio reddito per consumi o investimenti diretti (i decili più ricchi), come indica spesso il premio nobel Stiglitz nei suoi appelli per una riforma più progressiva del sistema fiscale anche al fine di stimolare la domanda aggregata. A Wall Street, continua Longo, «solo tra dividendi e buy-back le aziende hanno dato agli azionisti ben 800 miliardi nel solo 2018 (dati Yardeni). Ma l’Italia non fa eccezione. Si guardi al solo 2018, per fare un esempio. L’anno scorso le imprese hanno pagato 21,5 miliardi di dividendi».

Eppure questa ipertrofia (morbosa) di un sistema di bolle azionarie più o meno esplicite e più o meno autoreferenziali (si ottengono guadagni da capitale per investirli in strumenti simili a quelli da cui si è ottenuto il guadagno e che incrementano il loro valore proprio grazie alle continue aspettative auto-realizzantesi sui guadagni di capitale che apporteranno e i conseguenti investimenti) non ha avuto sempre il monopolio sociale sulle altre priorità della nostra comunità. La nostra Repubblica ha vissuto un’epoca in cui l’articolo 1 della Carta Costituzionale («…una Repubblica fondata sul lavoro», e non sulla rendita) soleva essere applicato. Come? Con la repressione degli strumenti finanziari pleonastici al fine di produrre beni e servizi che aumentano la qualità della vita dei più e non solo del vertice più benestante.

Questo periodo, che abbracciò l’epoca che va dalla Legge Bancaria degli anni ’30 fino all’inizio delle liberalizzazioni degli anni ’80 era, tanto per cominciare, caratterizzato da una scarsità di intermediari finanziari differenti dalle banche pubbliche – una scarsità che aveva sia radici storiche che amministrativo-politiche. Come ricorda Renzo Costi (Professore emerito di Diritto commerciale, Università degli Studi di Bologna), l’intermediazione finanziaria era affidata, pressoché integralmente, al sistema bancario che, in forme più o meno articolate (la doppia intermediazione), convogliava il risparmio delle famiglie alle imprese e alla pubblica amministrazione, in un contesto che vedeva sempre più ridotti a valori insignificanti i rapporti diretti tra settori in avanzo e settori in disavanzo realizzati nell’ambito del mercato mobiliare (le borse).

Questo assetto era realizzato, da un lato, grazie ad una infrastruttura in cui il controllo politico formale delle banche maggiori era istituzionalizzato (le banche d’interesse nazionale – Comit, Credit, Banco di Roma – erano società per azioni, detenute dall’IRI; gli istituti di credito di diritto pubblico – banco di Napoli, di Sicilia, di Sardegna, Monte dei Paschi, San Paolo, BNL – erano controllati direttamente dal Tesoro; le casse di risparmio, ancora, controllate dal Tesoro e specializzate in determinati settori e aree che, quindi, non vedevano mai venir meno la propria quota di investimento nel futuro). In esso, soprattutto, la filosofia economica privilegiava l’indirizzo del credito e del capitale verso progetti che avrebbero avuto una utilità “pubblica” di sviluppo nel lungo termine invece che un rendimento privato più elevato e nel breve termine. Ancora Costi sottolinea un orientamento ben diffuso al tempo, per il quale Banca d’Italia e il Comitato interministeriale per il Credito e il Risparmio avrebbero dovuto, nel loro ruolo di vigilanza del sistema creditizio, «attuare gli indirizzi della politica economica governativa». Questo orientamento si incarnava nel modello di vigilanza che caratterizzava, appunto, la Banca d’Italia lungo la prima repubblica. Erano previsti, infatti, autorizzazioni finalizzate all’«utilizzo del sistema bancario anche per finalità di politica economica» (come sintetizza Luigi Donato nelle sue lezioni di diritto bancario all’Università di Tor Vergata) e queste autorizzazioni riguardavano materie come costituzione delle banche, apertura e cessione di dipendenze, aumento di capitale sociale, operazioni di concentrazione, modifiche statutarie, assunzione di determinati impieghi, concessione di fidi eccedenti; tra gli altri strumenti vi figuravano riserva obbligatoria, vincoli di portafoglio, massimale sugli impieghi, nulla osta nomina esponenti banche pubbliche, nomina delegato nelle BIN e negli istituti di diritto pubblico.

Dall’altro lato, il ruolo dell’IRI come centrale di politica industriale che indirizzava una grande fetta del risparmio degli Italiani nelle imprese industriali pubbliche sterilizzava ogni potenzialità di un sistema azionario speculativo quale quello di oggi. Barca e Trento sottolineano, per esempio, come la nascita dell’IRI fu la conseguenza di una esplicita scelta politica volta alla marginalizzazione del mercato di borsa, rinunciando definitivamente a creare le  premesse per lo sviluppo di un adeguato mercato privato dei capitali, con le relative regole di governo societario necessarie per sostenerlo, e a sviluppare gli strumenti e regole atti a creare quella separazione fra proprietà e controllo necessaria per la crescita e lo sviluppo di grandi imprese private. La proprietà debole (assente nell’IRI, che era una particolare struttura giuridica di proprietà dello Stato, per la precisione del Ministero delle Partecipazioni Statali), infatti, è la condizione per reperire capitale privato ma riduce la possibilità di indirizzare l’impresa verso un fine unico.

Questa la struttura istituzionale che si è occupata, per decenni, di far confluire la liquidità e i risparmi degli Italiani  nel sistema produttivo reale. Se si tiene in considerazione che la ricchezza finanziaria delle famiglie è oggi circa 4400 miliardi di Euro (secondo il report di Bankitalia la ricchezza totale, immobili eccetera, sarebbe superiore ai 10 trilioni) è facile desumere quanto un simile meccanismo sarebbe necessario oggi, che l’Italia soffre di un deficit di rapporto investimenti/Pil sostanzioso rispetto agli altri paesi Europei.

Oltre questo è da ravvisare, infine, l’intero impianto di mezzi giuridici che impedivano al grosso capitale finanziario di circolare verso ambienti che possedevano una esternalità sociale ( n.d.r. l’effetto non voluto dall’autore delle attività economiche sul sistema produttivo e di welfare del paese) non positiva o nulla. Ambienti che oggi coincidono con paradisi fiscali, grossi centri di scambio finanziario come la city di Londra o paesi che utilizzano tassi d’interesse più alti del nostro.

Il prof. Stefano D’Andrea dell’Università della Tuscia elenca, tra tali mezzi, la riserva obbligatoria per le banche – deposito obbligatorio in contanti che deve essere costituito dalle banche in ottemperanza a precise disposizioni normative, di cui una parte poteva essere investita in titoli di Stato. Per la parte in titoli del debito pubblico essa «era composta quasi esclusivamente da Bot. Tuttavia, il Tesoro, pur non avvantaggiandosi direttamente della disciplina della riserva obbligatoria, salvo la quota dei Bot, era favorito indirettamente dalla riduzione dei tassi che in tal modo si veniva a determinare a causa dell’accresciuta domanda sul mercato delle emissioni obbligazionarie». Questa misura – i cui effetti non sono paragonabili a quelli dei requisiti di capitalizzazione degli accordi di Basilea – incrementava la fetta di risparmio investita della spesa pubblica e minimizzava il guadagno di rendita del risparmiatore rispetto ai redditi da lavoro. Un effetto simile a quest’ultimo lo aveva anche il fatto che la Banca centrale non era vincolata ad investire la riserva in contanti versata collettivamente dalle banche in titoli del Tesoro, ma di fatto acquistava titoli del Tesoro. Ancora, nel 1973 fu introdotto il vincolo di portafoglio, che era l’obbligo delle banche di acquistare titoli obbligazionari. Le banche dovevano incrementare, in misura non inferiore al 6% della consistenza dei depositi, l’acquisto di titoli obbligazionari compresi in una “rosa” indicata dalla Banca d’Italia. Anche oggi la Banca d’Italia acquista tramite la BCE titoli di Stato, sortendo l’effetto simile, ma questo potere non è controllato dalla politica nazionale la quale non può dunque gestire autonomamente i rischi di mercato e sopperire ad un’eventuale fuga di capitali. Nei momenti di crisi, continua D’Andrea, si ricorreva anche al prestito forzoso. Infine, «il regime di repressione finanziaria era possibile in ragione del fatto che l’ordinamento conteneva enormi vincoli amministrativi alla circolazione dei capitali, e nel 1979 si era giunti anche ad introdurre sanzioni penali per la violazione di alcuni divieti. Il principio, desumibile dalla L. 25 luglio 1956, n. 786, era il divieto generale di concludere operazioni finanziarie con l’estero, salvo il rilascio di apposte autorizzazioni. Tutti questi vincoli vennero meno, in parte nel 1986 e in parte nel 1988, in seguito alla direttive comunitarie 86/566 e 88/361».

Quest’ultimo dettaglio, insieme al potere di erogazione monetaria da parte della Banca Centrale, è fondamentale per rendere sostenibile un sistema di indirizzo democratico (tramite il potere decisionale del Governo e del Parlamento, n.d.r.) del risparmio. Un assetto oggi strutturalmente impossibile finché l’Unione Europea e il libero mercato dei capitali ad esso costitutivo sarà in vigore.

Eppure l’utilizzo produttivo dei tanti miliardi di risparmi degli Italiani dispersi oggi in strumenti finanziari esotici – tramite le banche miste di oggi, che hanno totalmente fuso la loro funzione con quella dei dealer finanziari, perdendo (anche a livello giuridico) qualsiasi specializzazione o vincolo   settoriale – o in fondi d’investimento di funzione sociale incerta farebbe veramente comodo ad una ripresa dell’innovazione e dell’occupazione del nostro paese. Farebbe il bene, nel lungo termine, persino di chi oggi percepisce una certezza maggiore nell’utilizzo speculativo della propria liquidità. Perché il tasso di investimenti sul Pil in Italia (quasi 18% nel 2018, dati FMI) raggiunga la media Europea (20,5%) occorrono almeno 50 miliardi di investimenti aggiuntivi l’anno, e molti di più per far fruttare le totali potenzialità inespresse del nostro capitale umano.

Lottare per la nuova istituzione di un regime di controllo dei flussi finanziari è un dovere nei confronti nelle nuove generazioni, che non hanno potuto vivere un’epoca in cui anche nei periodi di instabilità internazionale si poteva ricorrere alla direzione pubblica del risparmio per rimettere in moto la macchina produttiva – solo negli anni Settanta, periodo di shock petroliferi, furono effettuati dall’IRI  (Franco Nobili, 1992) investimenti per 124.000 miliardi in lire 1991 (+67% rispetto al decennio precedente) con un incremento dell’occupazione di 228.000 unità (+70%), assicurando la ripresa piena della produttività dell’industria nazionale che, nel 1991, permise all’Italia di sfoggiare il prima di prima potenza industriale non nucleare (la quarta al mondo).

La “Repubblica fondata sul lavoro” assicurò all’Italia una crescita della produttività media del lavoro pari a quella tedesca fino al 1988 ed un aumento della spesa corrente costante che fino alla liberalizzazione del mercato finanziario degli anni ’80 e l’esplosione degli interessi sul debito pubblico non incideva in nessun modo nel rapporto debito/Pil nazionale. E’ il momento di decidere politicamente se seguire la pragmatica, la razionalità oppure l’ideologia. E’ il momento di recuperare la sovranità Parlamentare (ovvero popolare) sull’utilizzo di uno strumento (il risparmio) che come tale ha effetti e ripercussioni collettive e non “private”.

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