Banca Carige costretta anch’essa a ricevere la garanzia Statale. Dopo il mega prestito del Fondo Interbancario non “assicurato” da una successiva ricapitalizzazione da parte dei soci privati come si era sperato e il commissariamento della BCE, l’intervento del governo non poteva essere procrastinato. Come spiega il Sole 24 Ore, l’intervento è calibrato in tre fasi ipotetiche: «il piano A resta quello di una ricapitalizzazione in opzione ai soci, bocciata nell’assemblea dello scorso 22 dicembre da Malacalza Investimenti, da riproporre nelle prossime settimane eventualmente con il supporto dello schema volontario del Fondo interbancario di garanzia.
Il piano B prevede che, in assenza di un ritorno sul mercato dei capitali, la banca possa comunque contare sulla fornitura di liquidità a lungo termine attraverso la garanzia di Stato sulle obbligazioni, decisa lunedì per decreto, che Carige emetterà in futuro. E che consentirà alla banca, in assenza di ulteriori richieste di capitale da parte di Bce, di avere certezze sul finanziamento per tutto il 2019 in attesa dell’aggregazione con un altro istituto.
Il piano C riguarda l’impegno del Governo, se Carige dovesse avere ammanchi di capitale in sede di esame Srep da parte di Bce (nel comunicato del Governo si parla impropriamente di stress test), di procedere alla ricapitalizzazione precauzionale da parte dello Stato (non è chiaro se già autorizzata da Bruxelles). Ipotesi che il comunicato del Governo giudica estrema e futuribile, ma che avrebbe come conseguenza il burden sharing e quindi il sostanziale azzeramento degli azionisti e degli obbligazionisti (salvo rimborsi ex post) ».
In realtà, come spiega l’economista e deputato della Lega Claudio Borghi, Banca Carige aveva già del Settembre dello scorso anni portato a termine un’operazione che prevedeva lo scambio di titoli subordinati con bond senior di nuova emissione, della durata di cinque anni, cedola annua fissa del 5% e prezzo di emissione alla pari. Poichè nella normativa del burden sharing in caso di ricapitalizzazioni Statali (o nazionalizzazione, come precisa il viceministro Di Maio, secondo il quale in caso di ricapitalizzazione Statale Carige sarà portata ad essere in maggioranza proprietà dello Stato) in caso di dissesto di un istituto di credito è previsto che prima dell’intervento dello Stato venga ridotto il valore nominale delle azioni e delle obbligazioni subordinate (o la conversione in capitale di queste ultime), la conseguenza è che gli attuali obbligazionisti di Carige non saranno toccati, in quanto senior.
Cosa che non avverrebbe invece con l’applicazione delle regole Europee sul bail-in (che prevede la riduzione del valore nominale non solo delle azioni e delle obbligazioni subordinate, ma anche dei titoli di debito più senior, quali le obbligazioni ordinarie e i depositi di importo superiore ai 100.000 euro) o, ovviamente, con la liquidazione della banca. Si punta quindi ad evitare l’esperienza dei risparmiatori azzerati già accaduta con i precedenti decreti salva-banche.
Ma è sostenibile un sistema, come quello odierno, in cui lo Stato può intervenire SOLO come tappabuchi e “salvatore di ultima istanza” di enti privati lasciati liberi di operare secondo criteri di rischio che non assicurano la crescita dell’economia tout court? Poichè una cosa sarebbe sostenere pubblicamente l’onere della capitalizzazione e della gestione di una Banca potendo negli anni coordinare i suoi investimenti con quelli delle altre banche, con prospettive di investimenti sociali a lungo termine (che non devono produrre profitti immediati – o profitti tout court – ma che possono accettare sostegni Statali se il loro scopo è investire in industrie e programmi di interesse sociale, con ottime esternalità, in cui i privati non investirebbero nell’immediato). Un’altra è, invece, lasciare l’istituto privato a se stesso, incapace di lavorare organicamente con il resto del sistema creditizio e, quindi, “vittima” dell’avversione al rischio non conoscendo le condizioni, intenzioni e gli obiettivi delle altre banche, non conoscendo il prospetto dell’espansione di liquidità e di credito del sistema. Un’altra, ancora, è lasciare l’istituto di credito in balia di conflitti di interesse con privati, spesso sia proprietari che beneficiari, o libero di ricorrere alla speculazione azionaria (o sui derivati) per rincorrere guadagni a breve termine ma rischiosi. Se gestione Statale deve esserci, essa deve avvenire ALLA RADICE, con una gestione coordinata dell’intero sistema del credito.
Il modello di vigilanza di Bankitalia e la sua modificazione negli anni è emblematico di questa differenza di filosofia politica creditizia. Tralasciando l’immenso discorso sul controllo dello spostamento dei capitali a livello internazionale, dal 1936 fino a fine anni ’80 il sistema di vigilanza della Banca d’Italia era un sistema talmente accurato e discrezionale da poter essere considerato come coordinatore dei FINI dell’attività bancaria, e non solo delle garanzia del rispetto delle “regole”.
Il modello di vigilanza della Legge Bancaria 1936, infatti, come dice L. Donato dell’Univ. di Tor Vergata, prevedeva autorizzazioni
- alla costituzione delle banche
- all’apertura e alla cessione di dipendenze (es. aut. n. 298 nuove filiali nel 1950);
- all’aumento di capitale sociale
- alle operazioni di concentrazione (fusione)
- alle modifiche statutarie (n. 153 banche aut. ad app mod. nel 1990)
- all’assunzione di determinati impieghi (es. partecipazioni detenibili)
- al rilascio di A/C e di A/B a copertura garantita
- alla partecipazione ai sindacati di collocamento
- alla concessione di fidi “eccedenti” (es. n. 1.129 autoriz. nel 1988)
Esso prevedeva, fra gli altri vincoli tecnici
- riserva obbligatoria
- vincoli di portafoglio (acquisto obbligatorio di Titoli di Stato entro una certa fascia, ad esempio)
- massimale sugli impieghi
Era necessario, inoltre, il nulla osta alla nomina di esponenti delle banche pubbliche e alla nomina del delegato nelle BIN e negli istituti di diritto pubblico. “Pubbliche” e “pubblico” perchè, appunto, le banche più importanti erano Istituti di Diritto Pubblico oppure Banche di Interesse Nazionale, i quali vertici erano espressione del potere parlamentare (e, si presume, seguivano direttive esplicite o implicite circa la politica creditizia da portare avanti da una prospettiva nazionale e non tanto privatistica). La responsabilità era, insomma, esplicitamente delegata al politico – a differenza di oggi in cui, prima tramite le fondazioni bancarie e poi tramite interessi incrociati con l’industria, la mano della politica magari esiste, ma è celata, e libera di dare sfogo ai propri istinti senza l’istituzionalizzazione delle sue responsabilità e senza metterci la faccia di fronte agli elettori.
Dall’approvazione del Testo Unico Bancario del 1993 si è via via passati ad un tipo di vigilanza “regolativa”, nella quale l’accento è messo sulla tutela del rischio (con metodi poi discutibili, vista la norma sul bail-in citata) e (in teoria) sulla vigilanza sulla trasparenza.
La Banca d’Italia ed ora la BCE emanano disposizioni di carattere generale aventi a oggetto, principalmente:
a) l’adeguatezza patrimoniale;
b) il contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni;
c) le partecipazioni detenibili;
d) il governo societario, l’organizzazione amministrativa e contabile,
nonché i controlli interni e i sistemi di remunerazione e di incentivazione;
d-bis) l’informativa da rendere al pubblico sulle predette materie.
Auspichiamo dunque non solo una nazionalizzazione della Carige a prescindere dai vincoli dati dalla disciplina Europea sugli aiuti di Stato (che non sembra poi vietare la realizzazione di una banca Statale in sé, ma soltanto sostegni monetari che non si configurano come investimenti ma come distorsioni del mercato), a prescindere dalle “reale” necessità di farlo da un punto di vista privatistico, ma anche un deciso ritorno ai criteri di gestione pubblica e di vigilanza precedenti all’epoca del Trattato di Maastricht – possibilmente recuperando anche la separazione fra banche retail e di affari, in modo da far confluire il risparmio in investimenti nell’economia reale e non in asset speculativi (o presunti non-tali) e la suddivisione di banche e Casse per settore economico, favorendo la base regionale – in modo da concedere ad ogni settore un credito congruo al suo bisogno di crescita e non in funzione della momentanea forza o convenienza di settori in cui il guadagno a breve termine è prevalente (si vedano bolle immobiliari, buyback di azioni, bolle azionarie, ecc..).
Il CREDITO deve tornare ad essere uno strumento gestito dal potere democratico secondo i suoi bisogni e le sue prospettive, non una merce utilizzata a scopi di guadagni di chi ha il privilegio di gestirlo privatamente.