Travolto da una drammatica crisi economica, il Venezuela vive da mesi nel limbo finanziario di un “quasi default”. I pagamenti delle cedole sono sospesi da novembre, l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha dichiarato un default tecnico che però non configura ancora un fallimento generalizzato. In assenza di qualsiasi comunicazione ufficiale, non si capisce infatti se i pagamenti potranno riprendere oppure no.
L’Argentina, d’altro canto,continua nella sua sessantennale crisi economica. La Banca Centrale alza i tassi al 40% per tentare di frenare inflazione e svalutazione. Ogni tentativo di liberalizzare il “capitalismo” in questa nazione si risolve sempre in una sottomissione delle scarsissime realtà produttive interne a quelle straniere e al capitale straniero, ogni tentativo di fare politiche espansive si risolve in iperinflazione e quasi sempre ciò lo si cerca di attenuare agganciando la valuta al Dollaro, peggiorando solo la bilancia commerciale e creando il mercato valutario nero. Il presidente Mauricio Macri ha deciso nei giorni scorsi di chiedere nuovamente il soccorso del FMI.
Cristina Kirchner, fino alla fine del suo mandato nel 2015, aveva provato a interrompere il loop con una serie di iniziative:
-dazi per i prodotti importati
-dazi (retenciones) per i prodotti “semplici” non lavorati esportati
-proibizione di cambiare pesos in valuta straniera, se non per motivi precisi
-intensa attività di lavori pubblici ed iniziative del settore pubblico. con l apertura di vie ferrate, strade, scuole, università, lancio di satelliti, ecc ecc
-pagamento dei debiti con il FMI in un’unica soluzione
-sovvenzione dei mezzi di trasporto e delle bollette
-trattamento pensionistico per tutti
-“planes” ovvero sovvenzioni per i meno abbienti
Ma in un paese con problemi annosi e strutturali dal lato dell’offerta ciò apparve funzionare finchè il prezzo della soia – maggiore merce di esportazione Argentina – non ha cominciato a scendere.
il “liberale” Macri, arrivato al potere nel 2015 – dice l’analista Mirco Tomasi – «ha ripreso all’opposto con gusto una vecchia e malsana pratica argentina, quella di indebitarsi in dollari. Il debito pubblico emesso in dollari passa dal 29% al 36% del PIL. Come tutti sanno, un debito pubblico emesso in valuta estera è soggetto al rischio di default. Cosa che non accade al debito emesso in valuta nazionale. Macri nel Dicembre 2015 liberalizza i controlli di capitali che fino a quel momento erano in vigore in Argentina. In una situazione di alta inflazione (ca. 20%) questo provoca una virulenta fuga di capitali che fa deprezzare di oltre il 40% la valuta Argentina – provocando seri problemi a chiunque si trovasse a bilancio attivi in pesos e passivi in dollari. E’ abbastanza ovvio poi che un Paese con il 20% di inflazione abbia problemi dal lato dell’offerta, ovvero debba aumentare la sua capacità produttiva. L’Argentina infatti concentra le sue esportazioni su agricoltura, pastorizia e poco più (oltre il 60% del totale) mentre importa prodotti manufatturieri (85% del totale) – vedi grafico. In pratica scambia fagioli per aspirapolveri e lavatrici».
L’Argentina ha problemi culturali e macroeconomici giganteschi: una classe dirigente che non può fare a meno di fare politiche a brevissimo termine – sperpero di benefici monetari, assecondare l’evasione fiscale, dipendenza dall’esportazione di materie prime alimentari come la soia (esempio atipico della “maledizione delle risorse” che in genere colpisce i paesi petroliferi nel loro disinteresse a investire in altro e nella loro dipendenza dalle variazioni di prezzo del greggio), conseguente mancanza di un tessuto industriale di peso.
Ma nella storia ci sono stati esempi in cui nazioni in condizioni simili sono riuscite a finanziare la propria industrializzazione grazie a ESPANSIONE MONETARIA senza che essa creasse inflazione. Il punto è, infatti, fare in modo che l’allocazione di nuovo denaro creato sia per un determinato periodo circolante principalmente in attività di creazione di mezzi di produzione e non in consumi, importazioni o investimenti in strumenti finanziari speculativi (magari esteri), attività fuori luogo finché non vi sono le basi per la creazione di ricchezza materiale. Questo è l’unico modo in cui la parola “austerità” può avere un senso logico.
Nella Germania degli anni ’30 la soluzione fu trovata con le cambiali di pagamento chiamate MEFO bills (da Metallforschungsgesellschaft, la compagnia formalmente privata ma de facto controllata dallo Stato, che le erogava). Esse erano il mezzo di pagamento con cui le imprese che fornivano prodotti industriali allo Stato venivano pagate. Erano scontate dalla Banca Centrale al tasso del 4%, e la loro scadenza veniva continuamente prolungata fino a raggiungere i 5 anni. La fiducia in esse fece sì che raramente venissero scontate presto e permise il loro utilizzo come mezzo di pagamento tra imprese produttrici, divenendo una moneta complementare usata dai grossi produttori tra loro per scambiarsi commesse – non dai semplici consumatori. Il problema, come riporta H. Schacht, ministro dell’economia del tempo, nella sua autobiografia, è che «there was too great a danger that the Reichsbank, in granting direct credit, would lose control of currency policy. A way had to be found which would ensure that the Reichsbank was able to restrict and limit the amount of money in circulation».
Non c’erano chance, in altre parole, che lo Stato potesse ripagare subito il debito che occorreva per finanziare la produzione industriale di cui sopra: se esso fosse stato concesso in Marchi dalla Banca Centrale, vista la situazione economica, si sarebbe disperso subito circolando in consumi che avrebbero compromesso la politica valutaria necessaria, a meno di tassazione opprimente e impopolare (e, comunque, per forza imprecisa nei consumatori da ‘colpire’). Il “denaro” erogato allo scopo doveva circolare tra i fattori prettamente produttivi. I MEFO bills circolanti raggiunsero un valore di 12 miliardi di Marchi in 4 anni, erogati nella misura di 3 miliardi all’anno in media, l’inflazione Tedesca sempre stabile – e gli effetti sull’industrializzazione miracolosa della Germania negli anni ’30 li conosciamo bene, anche a nostro discapito. Essi potevano venire accantonati nelle normali banche o casse di risparmio ma la vera scommessa, dice Schacht, fu l’eventualità che una buona parte di essi non fu subito scontata alla Banca Centrale con i Marchi ma utilizzata come investimento liquido a medio termine o come agile mezzo di scambio. Il meccanismo volse al termine quando le banche, in conseguenza della crescita economica e della accresciuta domanda di credito, avevano bisogno di maggiori capitali e cominciarono a scontare i MEFO bills alla banca centrale in gran quantità.

Hjalmar Horace Greeley Schacht (Tingleff, 22 gennaio 1877 – Monaco di Baviera, 3 giugno 1970)
L’erogazione di tali titoli, inoltre, era gestita da funzionari provenienti dalla Reichsbank, i quali li concedevano solo se realmente corrispondenti a una fornitura di beni e non per altri scopi – non per puri prestiti, non per sostegno ai consumi. I MEFO bills, usati dagli industriali per pagare fornitori nazionali e stranieri, erano così immuni da inflazione e speculazione valutaria, perchè circolanti in circuiti ove gli agenti economici si caratterizzavano per obiettivi produttivi seri e disciplinati. Per cronaca storica, è interessante osservare come nel 1937 – alle prime avvisaglie di un aumento di prezzi – Schacht informò Hitler che avrebbe provveduto a sospendere l’erogazione di cambiali MEFO. Hitler si trovò in disaccordo e la conseguente disputa si risolse col compromesso per cui il ministro dell’economia sarebbe rimasto al suo posto per un altro anno, a condizione che i MEFO fossero stati sospesi nella loro emissione una volta raggiunto l’ammontare dei 12 miliardi: Hitler mantenne la parola. Interessante anche notare che l’economista fu assolto al processo di Norimberga – tra le altre ragioni, perchè fu sostenuto che la maggior parte delle spese in armamenti risalissero al periodo successivo alle sue dimissioni e all’esperimento MEFO.
Naturalmente in Argentina, vista la diversa attitudine culturale, occorrerebbe un sistema ancora più stringente per evitare che tali cambiali siano scambiate con moneta corrente e usate dal semplice consumatore o speculatore (ma ora con la possibilità di avere monete digitali ci sono molti mezzi adeguati allo scopo). Lo schema infatti prevede una limitata espansione dei consumi già presenti, una enorme domanda Statale verso produzioni collettivamente utili ma non oggetto di domanda quotidiana da parte dei singoli consumatori – nessun cittadino singolo va a comprare un’autostrada, un treno, un carro armato, un impianto industriale, un sistema informatico per “l’internet delle cose”, almeno finché questi prodotti non ci sono già e può acquistarne un “frammento” di servizio.
Un tale schema è stato – e sarebbe – la totale dismissione dell’idea di moneta come “merce di scambio” politico in senso negativo, che non fa che portare l’idea di moneta come merce per contratti bilaterali al mondo del clientelismo demagogico politico. La filosofia della moneta come merce utilizzabile solo per contrattazioni bilaterali, infatti, non è prerogativa dell’ideologia liberista per la quale “non esistono pasti gratis” e, come dice Robert Nozick, non esiste un welfare collettivo ma solo fini individuali e, quindi, ogni trasferimento di ricchezza o di facilitazioni economiche coincide solo con una violenza fatta ad un agente economico con la speranza di fare un beneficio ad un altro. Una ideologia che dimentica la dimensione temporale e dell’incertezza, a causa delle quali è inevitabile un impegno a calcolare organicamente il tipo di distribuzione di potere più adeguato a far funzionare un sistema che in caso di asimmetrie di potere negoziale e di asimmetrie informative da parte dei singoli diviene inefficiente. La moneta concepita come mera merce di scambio da due o più poteri che hanno già un “prodotto” da offrire e un conseguente potere reciproco è esattamente quella che troviamo in sistemi politici “interventisti” nei quali manca la trasparenza e la visione a lungo termine e, come nel caso Argentino, si legifera principalmente per accontentare i bisogni immediati e ottenere puro consenso.
Una moneta focalizzata su investimenti peculiari ad effetto non immediato e impossibilitata a funzionare arbitrariamente nella sua espansione farebbe invece trionfare l’idea di moneta come strumento di COORDINAZIONE SOCIALE che presuppone una classe dirigente responsabile e trasparente nel suo saper progettare un sistema organico nel lungo termine – anche se in Germania ciò fu paradossalmente ottenuto da una dittatura feroce ma geniale dal punto di vista macroeconomico.