ALL’ATTACCO DEL DEBITO PUBBLICO? Sì, MA CON LA «FINANZA PUBBLICA»

Il FMI torna all’attacco dell’Italia: «tassare ricchezza e immobili per ridurre il debito». Ma COME SI E’ RIDOTTO IL DEBITO IN PASSATO, ammesso che sia necessario farlo? Facendo austerità fiscale? No di certo. Studiamo la STORIA.
Innanzitutto 3 premesse concettuali-filosofiche:
1 – Il debito è un’anticipazione di compenso che la società dà ad alcuni individui. L’INTERA società riceverà i frutti del progetto sviluppato dal debitore singolo, perciò è (o meglio sarebbe) logicamente corretto che il debito sia allocato con criteri COLLETTIVI e non privati di rischio-beneficio.
2 – In una comunità, per questioni di asimmetrie informative o temporali nella produzione, ci sarà sempre una certa parte di cittadini bisognosa di questa «anticipazione», il debito PUBBLICO quindi non deve essere “annullato” ma, al massimo, rinnovato cambiando i detentori.
3 – Addirittura, in casi di recessione o disuguaglianza gravi, tale «anticipazione» può essere utile per produrre spesa e fiducia reciproca che si moltiplica nella rete economica senza bisogno che l’«anticipazione» sia poi colmata (soprattutto se erogata tramite moneta Fiat di Banca Centrale, come sarebbe coerente visto il punto 1): spesso un debito pubblico può essere fatto aumentare e restare alto senza problemi (si veda Giappone, Cina, Regno Unito).

La RIDUZIONE del debito pubblico deve interessare perciò solo la parte di esso che non è UTILE a incentivare spese/investimenti nel tessuto produttivo, ovvero che NON RISPECCHIA CRITERI COLLETTIVI di rischio-beneficio.
Ad esempio, la spesa per gli interessi. Questa è diretta in genere verso agenti che tendono a usare questi capitali per investire in circuiti ristretti come gli strumenti finanziari o i beni di lusso: settori a basso moltiplicatore e che sono sintomo di una polarizzazione della ricchezza nel tessuto sociale (altro fenomeno negativo per la crescita).
Soprattutto, la spesa per gli interessi proviene dal fatto che il debito non è oggi purtroppo un’«anticipazione di compenso allocata secondo criteri collettivi» ma una MERCE allocata da privati, secondo le loro necessità o desideri in quanto a rischi e benefici futuri.

Come si è fatto, dunque, nel corso nel ‘900, a ridurre la portata del debito? IMPONENDO questa “ragione collettiva” sulle ragioni dei “venditori di debito”. Creando, in altre parole, un contesto normativo per cui questi ultimi avessero poca scelta e poco potere circa dove investire e a quali termini farlo, dirigendo i capitali in maniera privilegiata verso i titoli pubblici e con tassi d’interesse NEGATIVI per la maggior parte del tempo negli anni 1945-1975, vista anche la sana inflazione fisiologica di quegli anni.
Gli strumenti utilizzati da diversi paesi Occidentali furono svariati:
a) Espliciti o indiretti limiti al tasso d’interesse – tramite regolamenti nazionali espliciti, tassi fissi sui titoli di Stato non commerciabili, tassi decisi dalla Banca Centrale prestatrice di ultima istanza al Tesoro.
b) Creazione di una schiera di capitali domestici “intrappolati” e “costretti” a rivolgersi ai titoli di Stato – flusso di capitali ristretto e controllato tramite autorizzazioni ai movimenti, obbligo di possedere per le banche una quota di riserve in investimenti nei bond, tasse sulle transazioni finanziarie per scopi diversi dal finanziamento del debito pubblico.
c) In alcuni casi, come Cina, India, Giappone e Italia, possesso diretto o controllo diretto da parte del governo del sistema bancario.
I risultati di questo trentennio furono strabilianti. Per approfondire è interessante il saggio «The Liquidation of Government Debt» di Carmen M. Reinhart e M. Belen Sbrancia, da cui le informazioni sopra sono tratte. In dettaglio, nel periodo studiato (che per altri paesi è considerato più lungo) si riporta una percentuale di anni in cui gli interessi sul debito furono NEGATIVI che sono il 41% per l’Italia, 97% per l’Argentina, 48% per l’Australia, 35% per la Svezia, 47% per il Regno Unito, 25% per gli Usa. Per l’Italia è stato stimato, per il periodo 1945-70, un RISPARMIO sui costi del 5.3% del Pil all’anno (si veda tabella, tratta dal testo citato).


Questo ha aiutato il nostro paese a mantenere il rapporto debito/pil del 30% circa dal ’45 al ’70 nonostante una spesa corrente in costante aumento (ma anche durante la crisi petrolifera, nonostante la necessità di stimoli all’economia, il rapporto si era stabilizzato al 60%; prima dello smantellamento del sistema descritto, iniziato nel 1981 col famoso “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro).
In genere si dà a questo periodo il nome di “repressione finanziaria”, ma io preferisco chiamarlo periodo di “finanza democratica”, poichè prevaleva il principio per cui, come spiegato sopra, la natura del debito e i termini per la sua allocazione venivano influenzati da una sorta di RAGIONE COLLETTIVA tramite i governi democraticamente votati.

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