EUROPA E CINA: RAZIONALITA’ A CONFRONTO. TRA TEORIA DEI GIOCHI E MIOPIA INDIVIDUALISTICA

Difficile a credersi, ma una cosa interessante da approfondire in questi giorni sarebbe la politica Cinese sui BREVETTI. Sì, perchè un paio di settimane fa Gentiloni commentava il dato sulla produzione industriale (+4% in un anno, record dal 2010), sostenendo che per incentivare l’Industra 4.0 sarebbe «folle attuare politiche protezioniste, come “sostengono alcuni”». Inoltre stiamo vivendo in questi giorni il caso Embraco, l’azienda in procinto di delocalizzare la produzione in Slovacchia per motivi rintracciabili di fatto solo nella differenza salariale tra Italia ed il futuro paese ospite.

Naturalmente chi scrive non è “protezionista”, al massimo sostiene un coordinamento di buon senso dei flussi di merci e capitale a seconda della esigenze di settori più sensibili. Ma occorre far notare sempre come il mito della liberalizzazione assoluta come sinonimo di progresso tecnico sia, appunto un mito.

La politica del QUID PRO QUO Cinese era esplicita prima della sua adesione al WTO, ora non è ufficiale ma applicata “sotto banco” alle imprese. Di che si tratta? In sostanza la Cina chiede da decenni ad alcuni tipi di aziende – le più innovative a livello tecnologico – di cedere i diritti sulle loro innovazioni al futuro partner locale in cambio del permesso di creare una joint venture nel paese. Politica commerciale che da noi sarebbe illiberale, “protettiva”. Questa cessione vale solo dentro i confini Cinesi, all’estero il proprietario del brevetto è l’azienda non Cinese. Questo spiega il basso flusso di investimenti diretti esteri da parte Occidentale in Cina.

ATTENZIONE PERO’. Si tratta di un flusso lento ma costante di progresso tecnologico lungo gli ultimi decenni, che ha combinato l’interesse delle imprese Cinesi a usufruire della piena proprietà della nuova tecnica – con tutto quello che ne consegue in margine di guadagni, libertà di reinvestirli in toto in progetti domestici, protezione da competitor esteri – con l’interesse delle aziende Occidentali ad usufruire di un mercato immenso, quello Cinese.

Holmes e McGrattan – gli analisti di questo fenomeno – hanno concluso che questo modello ha apportato un guadagno del 4,5% in consumi domestici annui in Cina e una perdita degli stessi dello 0,5% nelle aree Europa e Usa, in confronto con una simulazione in cui la politica del quid pro quo fosse assente.

Tutto sommato, perciò, uno schema a SOMMA POSITIVA, aggregando “danni” e benefici globali. Non è un caso che la Cina abbia mantenuto questo sistema per decenni. Un esempio, questo, che la teoria dei giochi definirebbe un gioco asimmetrico cooperativo non a somma zero. Il punto è calcolare gli effetti che le reciproche decisioni possono avere sulle relazioni economiche di attori che hanno condizioni di partenza diverse e, quindi, margini di miglioramento e di creazione di aspettative molto diversi. In genere chi parte svantaggiato – le imprese Cinesi – ricava un vantaggio marginale maggiore da un “privilegio” anche a costo di rinunciare a una quantità maggiore di interazioni.

E’ complicato pianificare le politiche ottimali a livello commerciale tra aree asimmetriche. Eppure i Cinesi sembrano farlo in modo meno ideologico di chi si limita ad asserire assiomaticamente una certa filosofia di vita come regola generale.  I dirigenti Cinesi sembrano calcolare diplomaticamente seguendo la logica della teoria dei giochi che, come noto, è «la scienza matematica che studia e analizza le decisioni individuali di un soggetto in situazioni di conflitto o interazione strategica con altri soggetti rivali (due o più) finalizzate al massimo guadagno di ciascun soggetto, tali per cui le decisioni di uno possono influire sui risultati conseguibili dall’altro».

L’opposto di una razionalità del genere, che comprende come il risultato olistico delle decisioni individuali non può essere massimizzato attenendosi all’istinto della libera volontà del singolo è, appunto, l’individualismo metodologico. L’Unione Europea sembra paradossalmente essere campionessa di questo. Faccio un esempio di “gioco” rudimentale che è spesso citato per chiarire il senso dell’approccio della teoria.

C’è un soldato al fronte, che aspetta che i suoi compagni respingano un attacco nemico. Gli viene in mente che se che la difesa sarà di successo, è molto probabile che il suo contributo non sia essenziale. Se resta al suo posto di battaglia, quindi, egli rischia di ferirsi o morire senza utilità. D’altra parte, se il nemico vince la battaglia, le sue probabilità di ferirsi o morire sono ancora più alte e, a maggior ragione, senza motivo, poichè egli da solo non farebbe molta differenza rispetto alla superiorità del nemico. Alla luce di ciò, sarebbe RAZIONALE per il soldato abbandonare il campo di battaglia. Naturalmente, se tutti avessero lo stesso pensiero, essi causerebbero la sconfitta e se tutti si rendono conto che tutti potrebbero avere questo pensiero a maggior ragione avrebbero una ragione per abbandonare il campo. Tutto questo significa che sarebbe razionale per i soldati abbandonare la battaglia? Al contrario! Significa che occorre una “mente collettiva”, un coordinamento pubblico che metta in funzione reciproca – con la conoscenza, l’incentivo o la forza, se occorre – le singole volontà, per raggiungere un massimo risultato per tutti.

La razionalità individuale ignora se stessa: ignora come essa trasforma il suo stesso senso alla luce delle interazioni con le conseguenze delle altre “razionalità individuali”.

Pensiamo ora alla crisi di domanda interna che ha colpito nell’ultimo decennio l’Europa. Per semplicità non citerò  il problema della rigidità dei cambi e del ciclo di Frenkel, cause e sintomi indiretti della stessa crisi di domanda. Fin dall’inizio degli anni 2000, le riforme del lavoro Tedesche (riforme Hartz), agevolando tra l’altro i “minijob”, hanno notoriamente favorito una stagnazione dei salari Alemanni rispetto all’aumento di produzione nazionale.

Effetto del piano Hartz (2003-2005) sui salari reali Tedeschi. Da C. Tealdi e D. Ticchi su lavoce.info

Quando ciò cominciò ad avere un peso insostenibile sull’export degli altri paesi in seguito alla crisi, la risposta non è stata decidere cooperativamente di aumentare in sintonia tutti i livelli salariali dell’Eurozona. E’ stata di agire individualisticamente e portare a compimento riforme che reprimessero il livello salariale nei paesi concorrenti della Germania. La flessibilità nel licenziamento del Jobs Act ha favorito questo processo, dando un impulso alle esportazioni del Bel Paese già stimolate dalla “distruzione della domanda interna” operata da Monti – che seguiva la stessa logica. L’implementazione del così detto Jobs Act Francese mira allo stesso risultato.

Ulteriore abbassamento dei salari orari Italiani in concomitanza con l’entrata in vigore del Jobs Act, i cui decreti legislativi sono stati tutti emanati nel corso del 2015

Le conseguenze collettive di questo sono paragonabili alla sconfitta in battaglia dell’esercito sopra citato. Nessuna delle classi imprenditoriali ha il coraggio di fare il “sacrificio” di aumentare i salari ai propri lavoratori perchè sa che se lo fanno tutti allora il suo sarebbe un sacrificio dannoso a se stessa, e se essa è l’unica classe nazionale a non farlo ci guadagna anche il doppio – usufruendo dei redditi dei lavoratori esteri che acquistano i suoi prodotti. La combinazione di questi calcoli soggettivi è l’Europa in deflazione per anni, o in scarsissima inflazione. E’ noto, oltretutto, come il maggiore fattore influenzante i livelli di inflazione siano in Europa le tutele del lavoro (e quindi indirettamente dei redditi). Una situazione con nessun reale vincitore ed un intero continente sconfitto, fanalino di coda di una ripresa mondiale trainata dalla crescita dei paesi emergenti.

La filosofia soggettivistica è prima di tutto un problema culturale. Lo osserviamo nei fondamenti epistemologici su cui si basa l‘economia neoclassica, ormai diventati senso comune dei policy maker. Ma è anche un problema di miopia “classista”, con una incomprensione tra gli interessi delle grandi classi imprenditoriali e quelle dei lavoratori che da ormai 4 decenni allargano le loro divergenze fino a rinchiudersi in un orgoglio identitario che non concede spazio al ragionamento di lunghe prospettive.

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