EGUALITARISMO A PROCESSO. DISAMINA DEL CONCETTO PIU’ INCOMPRESO DELLA STORIA DELL’ECONOMIA

«Le 20 principali banche europee dichiarano che un quarto dei loro profitti proviene dalle loro società controllate con sede nei PARADISI FISCALI: oltre 25 miliardi di euro nel 2015. Eppure nelle sedi offshore le banche producono solo il 12% del fatturato e hanno il 7% dei dipendenti. Qualcosa non torna e il motivo è semplice: i profitti nei paradisi fiscali subiscono una tassazione molto minore che nel proprio Paese».

Lo scandalo dei Paradise Papers ha rivitalizzato lo sdegno popolare circa l’elusione fiscale. Il disinteresse a contribuire alla redistribuzione della ricchezza nella propria nazione sembra tanto clamoroso quanto celebre lo storico impegno nella sensibilizzazione sui temi sociali delle celebrità coinvolte .  Ma quanto di tutto questo clamore è suscitato da semplici rivendicazioni “legalistiche” («io pago le tasse quindi perché non lo dovrebbero fare loro con gli stessi parametri?» e quanto da un senso di ingiustizia radicato in ciò che reputiamo giusto in senso normativo? E’ interessante comprendere, infatti, quali siano le basi pratico-etiche della progressività fiscale e, in generale, della preferenza per l’egualitarismo nella distribuzione della ricchezza a cui quella tende. In caso contrario, scadremmo in una mera e banale convenzionalità di discorso, che non avrebbe nessun valore pratico.

Dobbiamo quindi fare un discorso normativo e non in senso giuridico. Una teoria del “dover-essere”, cioè un discorso in cui ciò che “dovrebbe essere” è desiderato il più possibile da tutti deve, per definizione, tendere a massimizzare le preferenze di tutti. Una “teoria normativa” sull’egualitarismo, perciò, conferma la sua validità ad un grado sempre maggiore a seconda di quanto grande sia la soddisfazione totale dell’insieme degli individui coinvolti, la “felicità totale” della comunità.

Questo semplice assunto pone diversi parametri ed esclude i punti di vista più semplicistici. In particolare:

  • L’egualitarismo non può essere perseguito come “valore in sé”, a prescindere dal livello di felicità totale che esso determina.
  • D’altra parte, la mancanza di egualitarismo non può essere giustificata dal fatto che una distribuzione ineguale di ricchezza «è tale perché è stata prodotta da chi la possiede o perché è stata trasferita a chi ce l’ha in maniera volontaria da altri tramite commercio e doni», come il filosofo G. A. Cohen descrive la classica posizione conservatrice. Infatti, un’analisi della distribuzione della ricchezza interessata alla felicità che essa produce deve necessariamente tener conto  1) Del bilancio tra effettiva “afflizione” provata da un individuo nel produrre una certa cosa (o nel produrre la scelta giusta riguardo al percorso professionale che lo ha portato a produrre una certa cosa) e felicità apportata dal godimento e scambio del prodotto. Nel caso in cui uno stesso grado di “fatica” rispetto a queste cose risulti “più premiato” in una persona rispetto a un’altra, entra in gioco infatti la variabile della fortuna, che concerne anche la questione della distribuzione preliminare degli strumenti di produzione e di conoscenza.   2) Degli effetti che, indifferentemente dal punto precedente, una certa allocazione di ricchezza ha sulla dinamica temporale degli incentivi e delle aspettative reciproche la cui solidità è parte integrante del meccanismo di scambio e di produzione stesso. Come vedremo, una maggiore disuguaglianza, favorendo un contagio di cattive aspettative di profitto dovuta alla debole domanda, è spesso empiricamente correlata ad una minore crescita aggregata.

Abbiamo dunque tre criteri fondamentali: il rigetto di ogni giudizio sull’egualitarismo come valore assoluto, la necessità di considerare la variante della “fortuna” e la necessità di tener conto della dinamica delle aspettative reciproche.

Ad approfondire questi temi, recentemente, sono stati il filosofo dell’economia Amartya Sen e il celebre pensatore John Rawls. Sen, nel suo famoso saggio Equality of What? pose l’accento su come il concetto utilitaristico classico di uguaglianza basata sul “reddito” e il “possesso di cose” o sul semplice “piacere” non è abbastanza complesso per rendere conto della diversità degli individui umani. Ogni individuo, infatti, riesce a sfruttare determinati strumenti in modo diverso a seconda delle proprie potenzialità innate e contestuali. Dunque, la questione dovrebbe focalizzarsi più sul massimizzare le capacità fondamentali che occorrono a tutti per vivere una vita piena, invece che su misure quantitative come il reddito e il piacere, i quali sono spesso calcolati con astrazioni. Rawls, nel suo libro A Theory of Justice sostiene che se immaginassimo tutti di non sapere che posizione sociale avremmo in vita, le nostre preferenze andrebbero per un sistema che supporta i bisogni delle fasce basse, dimostrando quanto un contesto solidaristico sia pragmaticamente preferibile. Rawls, inoltre, sostiene che l’unica giustificazione possibile per la disuguaglianza sia se essa «facilita il miglioramento delle condizioni di vita delle classi meno abbienti» (ad esempio stimolando la creazione di posti di lavoro tra i grossi imprenditori).

L’opera di Sen ci ricorda come un’ottimizzazione della felicità aggregata non possa prescindere da un impegno non solo nella redistribuzione ma nella pre-distribuzione, termine coniato dall’economista di Yale Jacob Hacker a indicare l’investimento sociale atto a ottimizzare le capacità sociali e produttive degli esseri umani fin dalla loro tenera età (un tema molto ignorato soprattutto in paesi come gli Usa, dove la ricchezza dei genitori influenza ancora molto i risultati nell’educazione dei figli)

La teoria Rawlsiana dell’uguaglianza ci rimanda invece al compito centrale che un teorico deve assumersi per formulare una metodologia al fine di valutare l’opportunità e il grado di uguaglianza economica di una società, a prescindere quanto essa sia raggiunta con la redistribuzione e quanto con la pre-distribuzione. Si devono cioè pesare attentamente i fattori quali aspettative, incentivi, “fatica” lavorativa e fortuna tipici di ogni fascia sociale attuale al fine di creare un ambiente il più soddisfacente possibile.

 

Tentiamo di realizzare una teoria che pesi questi fattori in una società economica basata sulla reciprocità e lo scambio.

Se un atto di reciprocità è uno scambio di beni o servizi in vista di un miglioramento della qualità della vita attesa da parte di entrambi i soggetti coinvolti

1–         Il motore di crescita del benessere sociale è la spinta alla creazione di potere di scambio da parte di un soggetto, la volontà di essere percepito il più possibile utile da parte dei suoi pari.

2–         L’incentivo a incrementare questo potere tramite innovazioni e investimenti è in funzione dell’esistenza di una concorrenza che deve essere sia ampia sia sostenibile (la polarizzazione del potere commerciale in forti oligopoli può essere regressiva, in quanto atrofizza le aspettative di guadagno della maggioranza che detiene in un certo periodo meno potere di negoziazione).

3–         Ogni abbassamento degli incentivi a migliorare o mantenere un certo potere di negoziazione in qualche punto del “circuito” può portare ad una percezione di un abbassamento dell’utilità reciproca. La portata del contagio causato da tale percezione non può essere calcolato a priori vista l’enorme complessità delle interazioni commerciali umane, per cui è possibile che un certo abbassamento di aspettative da parte di un gruppo di agenti economici può portare ad una generale diffusione di aspettative reciproche negative che influenzano la velocità di circolazione della moneta e della produzione e provocano  un generale abbassamento della qualità della vita, i cui sintomi più clamorosi sono le recessioni economiche.

La conseguenza di questi punti è la preferenza per una società in cui il potere di negoziazione sia eguale tra gli agenti oltre che massimizzato in aggregato. L’uguaglianza in tale potere serve ad evitare la tendenza all’impoverimento di alcuni gruppi dovuta all’“estorsione” ricevuta dal maggiore potere di negoziazione di altri (si pensi all’abbassamento dei salari sotto implicita minaccia di licenziamento), con tutte le conseguenze in incentivi ed aspettative reciproche che questo potrebbe comportare. Appare fallace l’obiezione per cui in una situazione di diseguaglianza si dovrebbe tener conto anche del possibile aumento di potere di negoziazione e di ricchezza all’interno del circuito dei “fortunati”, che bilancerebbe in aggregato costi e benefici umani. Infatti, una concentrazione in pochi punti della ricchezza non assicura equivalente probabilità di aumento di qualità della vita in aggregato, in quanto non assicura la valorizzazione di più combinazioni di scambi possibili e quindi di più potenzialità e caratteristiche innovative umane possibili: per dirla nel modo più semplicistico possibile, si ha più probabilità di scoprire geni dell’impresa e dell’innovazione tecnica in un mercato “egualitario”.

La progressività fiscale e la pre-distribuzione come bilanciamento di potere di scambio tra i soggetti rende evidente che lo scopo della fiscalità diviene quello di incentivare l’impresa in aggregato, rovesciando ogni polemica sulla diminuzione di incentivi prodotta dalla aliquote marginali alte.

Questo sguardo ai rapporti “esistenziali” tra gli uomini ci fa concludere che il metodo da seguire è tendere all’egualitarismo al fine di massimizzare e stabilizzare le buone aspettative reciproche. Nel fare ciò occorre inoltre inserire nel calcolo dei costi e benefici, sempre in una prospettiva temporale, il fattore della “fortuna” di cui abbiamo parlato riguardo alla sofferenza dei meno abbienti e alla felicità dei più abbienti, anche al fine di dare un valore realistico del “sacrificio” che questi ultimi sopportano nel caso di trasferimento di ricchezza e al fine di valutare realisticamente quanto ciò influisca sulle aspettative che li incentivano alla produzione.

 

Ma è verificabile tutto ciò? Stiamo parlando del mondo reale o si tratta solo di elucubrazioni filosofiche?

In genere una buona filosofia riesce a scovare regolarità logiche nella realtà umana senza necessariamente l’apporto di ricerche empiriche. Ma diamo uno sguardo a chi queste ricerche empiriche le ha fatte. Possiamo perciò concludere questo articolo con quattro riferimenti:

  1. J. Stiglitz, economista premio Nobel nel 2001, in diverse opere come The Price of Inequality, ha chiaramente affermato come «la disuguaglianza – oltre coincidere sempre con la diminuzione di opportunità – trovi negli oligopoli e nel trattamento fiscale preferenziale per alcuni individui un abbassamento dell’efficienza dell’economia in generale». Si tratta solo dell’autore più prestigioso dei tanti che sostengono una simile tesi.
  2. In Italia il coefficiente di Gini – una scala che da 0 a 100 indica l’ampiezza delle disuguaglianze di reddito, con 0 a indicare la perfetta uguaglianza – è passato da 42 a 30, dal 1947 al 1982/1991. Dal ’55 al ’65 la PRODUZIONE industriale aumentò del 114%, dal ’65 al ’75 del 52%, dal ’75 all’85 del 25%, dall’85 al ’95 del 24%. Ma dal ’95 al 2005 aumentò solo del 3% e dal 2005 al 2015, complice la crisi, diminuì del 18%. Il Pil nel periodo “d’oro” dell’uguaglianza sociale crebbe in Italia con una media del 3.5% l’anno. Dal 1991 al 2015 l’indice di Gini in Italia è salito invece da 30 a 33. La crescita del Pil raramente ha superato il 2.5% dall’inizio degli anni Novanta. Ciò non significa che l’aumento dell’uguaglianza (e quindi dei redditi da consumo) sia il solo o neanche il più importante fattore di crescita, ma che svolge un ruolo influente.
  3. E’ evidente che l’unico periodo della storia moderna significativamente PRIVO di CRISI FINANZIARIE sia stato il trentennio da metà anni ’40 a metà anni ’70, l’unico in cui in tutto l’Occidente furono applicate vere economie miste con controllo dei capitali, politiche industriali pubbliche anticicliche, incrementi salariali e sistemi fiscali FORTEMENTE PROGRESSIVI (grafico tratto dal report della Deutsche Bank pubblicato a Settembre 2017). 
  4. Infine, ricordiamo come l’accumulo di ricchezza verso l’1% più ricco coincida con la diminuzione della velocità di circolazione della moneta. 

 

In conclusione, si è voluto dare uno sguardo metodologico ad un’analisi della questione dell’egualitarismo che non prenda in questione dilemmi moralistici bensì il problema della massimizzazione della ricchezza delle vite umane. Le conclusioni normative a cui si è arrivati sono malleabili e necessitano di calcoli contestuali complessi per essere applicate ad ogni ambiente economico.

L’importante, però, è abbattere gli ostacoli dati dai giudizi intuitivi che rendono la discussione intorno a questo tema uno scontro ideologico tra “produttivisti” e “egualitaristi”.

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