APOLOGIE DI ANTIFASCISMO. MALATTIE STORICHE AL TEMPO DELLA VIOLENZA DISCONOSCIUTA

Nella seconda delle sue Considerazioni Inattuali, Friedrich Nietzsche analizza finemente la patologia che comporta, paradossalmente, la troppa memoria storica. L’eccesso di memoria, secondo il filosofo Tedesco, paralizzerebbe l’immergersi nelle urgenze peculiari del presente, poiché sarebbe una pesante applicazione di categorie valoriali non più efficaci per agire nel momento attuale. Ciò non significa, certo, il voler eliminare la memoria storica ed i suoi insegnamenti: significa soppesarli in funzione della loro utilità alla vita, piuttosto che interpretare la vita presente in funzione di una memoria che scandisce logiche ed eventi storicamente determinati e specifici. L’ipertrofia del sapere storico è, per Nietzsche, nient’altro che una malattia: è noto come per l’autore ogni fattore che determini una diminuzione della capacità di agire sul presente sia da considerarsi una malattia in senso strettamente biologico. Egli arriva persino a sostenere che «L’uomo invidia l’animale, che subito dimentica […] l’animale vive in modo non storico, poiché si risolve nel presente […] l’uomo invece resiste sotto il grande e sempre più grande carico del passato: questo lo schiaccia a terra e lo piega da parte. Per ogni agire ci vuole oblio: come per la vita di ogni essere organico ci vuole non solo luce, ma anche oscurità. La serenità, la buona coscienza, la lieta azione, la fiducia nel futuro dipendono […] dal fatto che si sappia tanto bene dimenticare al tempo giusto, quanto ricordare al tempo giusto».

Questa malattia va a braccetto con la tendenza, emblematizzata nella dialettica Hegeliana, di vedere la storia come un progresso totalmente razionale, come un avanzare di “ciò che è logico” al punto che il ricordo degli avvenimenti benefici passati non è utilizzato come oggetto di analisi, ma al fine di una «nuda ammirazione del successo».

Il successo dell’antifascismo negli anni ’40 è stato sicuramente un “progresso” e deve essere studiato nella sua capacità di aver cancellato dalla storia la retorica e le iniziative fasciste, in quanto portatrici di un atteggiamento socialmente violento verso determinate fasce sociali e intollerante verso l’iniziativa dell’Altro da esso. Ma questa acquisizione storica legittima la tendenza a porre il dibattito pubblico e, peggio, il dibattito legislativo in funzione della lotta contro i contenuti specifici attraverso cui il fascismo si manifestava? Il gestore dell’ormai nota “spiaggia fascista” a Chioggia è indagato dalla procura della Repubblica di Venezia, e questa notizia ha dominato per giorni i dibattiti sui social network. La proposta di legge dell’On. Emanuele Fiano recita «Chiunque propaganda le immagini o i contenuti propri del partito fascista o del partito nazionalsocialista tedesco, ovvero delle relative ideologie, anche solo attraverso la produzione, distribuzione, diffusione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini o simboli a essi chiaramente riferiti, ovvero ne richiama pubblicamente la simbologia o la gestualità è punito con la reclusione da sei mesi a due anni». Anche questo domina i temi di pubblico dominio, in maniera sicuramente prevista e prevedibile anche dagli autori della proposta.

Nietzsche avrebbe denunciato questo atteggiamento come accecante, paralizzante e bisognoso di oblio storico. E’ paralizzante anteporre, nella discussione pubblica, la critica dei contenuti attraverso cui la violenza si manifestava 70 anni fa rispetto alla critica dei contenuti attraverso cui la violenza su manifesta oggi: siamo in un’epoca talmente decontestualizzata rispetto ai valori culturali ed ai rapporti di forza del ventennio fascista che persino chi viene più avvicinato, nell’Europa Occidentale, ad idee di estrema destra propone l’istituto del referendum popolare come perno del proprio programma politico elettorale.

Per rendere giustizia a chi si oppose alle violenze del fascismo, perciò, non dobbiamo appesantire la cultura moderna con una lotta contro gli stessi contenuti materiali, ormai decontestualizzati. Dobbiamo lottare contro la stessa forma logica che ha generato la violenza fascista. Isolare una tale logica formale ha molte più probabilità di sopravvivere al declino dell’attualità storica.

In che cosa consiste questa logica? Essa si potrebbe sintetizzare come autoreferenzialità dei valori: in altre parole, come l’eliminazione totale dell’Altro nella scala dei valori legittimi di un ambiente culturale, economico, sociale. C’è, insomma, la presenta di alcuni valori che si giustificano da sé, circolarmente, senza dar conto di una loro fondazione “razionale” nel benessere e piacere prodotto nel seguire tali valori. Chi sostiene di trarre benessere dall’Altro da essi è additato come eretico, come un individuo contro natura.

Vogliamo ora, di conseguenza, illustrare un esempio di autoreferenzialità dei valori che condiziona l’humus culturale e macroeconomico odierno: l’istituzione del fiscal compact, il patto di bilancio Europeo ratificato dal parlamento Italiano nel Luglio del 2012. La sua giustificazione, la ratio della sua stessa esistenza è – oltre che emblematica di un dibattito politico che assume da decenni i dogmi della bassa inflazione e dell’austerità di bilancio come buoni in sé – totalmente autoreferenziale da parte degli stessi canali istituzionali che dovrebbero fornirla.

Uno dei documenti di valutazione del fiscal compact pubblicato dalla Banca Centrale Europea, ad esempio, sostiene  che gli stati membri si devono impegnare «ad evitare eccessivi deficit di bilancio – i parametri dei quali sono stabiliti nel limite del 3% del rapporto deficit/Pil e 60% del rapporto debito/Pil». L’importanza di queste particolari misure non è mai spiegata attraverso una analisi dettagliata su come esse influirebbero positivamente sugli indicatori della qualità della vita della comunità. Queste disposizioni sono giustificate dal fatto che gli obiettivi che esse implicano sono considerati valevoli in se e per se nel panorama economico. Tali obiettivi sono la stabilità finanziaria e la competitività, che condurrebbero intrinsecamente ad una situazione economica preferibile. Da un lato nel documento della BCE leggiamo, quindi, che «l’obiettivo principale del fiscal compact è favorire la disciplina fiscale» e, dall’altro, che gli obiettivi a medio termine della disciplina fiscale sono «preservare un margine di sicurezza rispetto al 3% del Pil come riferimento del deficit; assicurare un rapido progresso verso finanze pubbliche sostenibili e livelli di debito prudenti e, così, dare spazio contabile per altre manovre di bilancio come bisogni di investimenti pubblici».

Non solo, quindi, l’investimento pubblico (che è, nella stragrande maggioranza dei casi, creazione di nuova ricchezza sociale a prescindere dalla disponibilità e dalla debolezza dei singoli imprenditori) è subordinato ai criteri di bilancio ma questi ultimi sono giustificati in una maniera completamente circolare. Ma i documenti istituzionali sono soltanto l’espressione formalizzata di un’egemonia culturale che in ogni discorso pubblico, costruzione semantica o comunicazione ufficiale pone ogni intervento straordinario in funzione dei criteri esposti sopra, come ricorda bene il Commissario Europeo per gli affari economici e monetari Moscovici   che, rispondendo alla richiesta Italiana di flessibilità fiscale, dichiara che bisogna «trattare con l’esecutivo per evitare “deviazioni non autorizzate” dalle regole europee di bilancio». La stessa imposizione del pareggio di bilancio in Costituzione è stata salutata come «un momento solenne» dai suoi maggiori sostenitori politici, in una cornice di espressioni retoriche e roboanti circa la necessità e la nobiltà del rigore, senza presentare una prospettiva analitica che spieghi perché uno sforamento di un certo limite di debito pubblico sia una cosa “non preferibile” visto che, per presentare un’obiezione formale, l’evidenza empirica e anche logica dicono che nella maggior parte dei casi una maggiore spesa pubblica equivale ad un maggiore risparmio ed investimento privati (e, quindi, “perché i secondi  non potrebbero essere considerati come valori pratici positivi per giustificare la prima in ogni sua forma?”). L’annullamento linguistico di ogni discorso che ponga altri valori come fondazione di certe regole di bilancio (e non viceversa) è un esempio lampante di fascismo culturale. Si tratta di fascismo, perché se accettiamo che la storia sia contingente nei contenuti della violenza, nei suoi modi di esprimersi, ma che essa possa formalmente sintetizzarsi nell’esclusione dell’Altro nella costruzione delle opinioni, dei valori, delle regole allora la coincidenza si dimostra palese.

In un momento storico in cui chi si reputa antifascista e fonda la propria autorevolezza politica nella “lotta contro il fascismo” è tra i maggiori sostenitori del linguaggio e dei valori autoreferenziali suddetti sarebbe coerente dire che il reato di “apologia di antifascismo” dovrebbe avere lo stesso peso giuridico di quello di “apologia del fascismo“. Con l’aggravante che l’esclusione dell’Altro, questa volta, è talmente subdola da essere riuscita a creare violenza fisica come conseguenza di applicazione di idee violente arrivate al potere pacificamente, al contrario dello squadrismo fascista che scelse necessariamente il percorso inverso.

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