IL CRACK DELLE BANCHE ITALIANE: PRENDIAMO ESEMPIO DALLA PRIMA REPUBBLICA (E ANCHE DALLE SOCIETA’ ABORIGENE)

E’ notizia di questi giorni l’avanzamento dell’inchiesta su Veneto Banca, con varie figure indagate per  ostacolo alla vigilanza, aggiotaggio e truffa.  Il crack dell’istituto di Montebelluna e altre banche Venete dovrebbe porre, oltre ai problemi di ricapitalizzazione che sanno ormai di pretesti per tirare avanti senza affrontare i reali problemi sistemici, una vera riflessione sulla filosofia sociale che è alla base del nostro sistema creditizio. Affrontiamo il problema non (solo) dal punto di vista tecnico ma da quello sociologico-politico.

Come testimoniano diversi attori non protagonisti, il declino di Veneto Banca è cominciato nell’ultimo decennio (dopo le grandi acquisizioni di altre banche) dal mix micidiale di operazioni dalla dubbia legittimità come «prestare denaro ai clienti per far loro comprare azioni della banca , oppure vendere azioni anche a risparmiatori ignari delle basilari regole finanziarie» e del parallelo collasso sistemico del credito e dei consumi dovuti al contagio della crisi globale e alla “cura Monti” a cui è stata sottoposta l’Italia. Come sostengono  le associazioni di tutela dei consumatori Adusbef e Federconsumatori, «Il doppio dissesto della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca dell’ex padre-padrone Vincenzo Consoli sarà di almeno di 18,9 miliardi di euro, a danno di 210.000 mila azionisti tra azzeramento del valore delle azioni (10 miliardi), perdite negli ultimi tre anni (per 4 miliardi), aumenti di capitale (4,9 miliardi)».

Cerchiamo di tracciare uno schema comportamentale di base adeguato a tali dinamiche.

L’investimento finanziario, sia sotto forma di capitale di rischio (clienti-azionisti) che di prestito (credito bancario) ha in questo quadro la struttura di una scommessa individuale fatta da un agente relazionalmente e “ideologicamente” isolato dai propri pari:

1 – Il risparmiatore e l’azionista non conoscono, per mera ignoranza o asimmetria informativa, l’utilizzo che verrà fatto dei propri fondi: “scommettono” su di un buon e redditizio utilizzo.

2 – I manager della banca utilizzano questi fondi non per finanziare attività riconosciute come utili alla comunità, ma per gonfiare i prezzi delle azioni stesse o per finanziare le attività di persone economicamente vicine alla banca stessa. Il primo caso si situa nella classica tipologia di “scommessa” simile al meccanismo dello schema Ponzi: alla base non vi è una collaborazione fra agenti economici sul come e dove creare ricchezza reciproca, ma la speranza individuale che il “prossimo” (in tutti i sensi) acquisti il proprio prodotto – mantenendone a sua volta il prezzo alto – prima di comprendere la vacuità valoriale dello stesso. Il secondo caso è un’evidenza di come piccoli poli “individuali” possano gestire isolatamente uno strumento, come il risparmio, che potrebbe e dovrebbe essere utilizzato per fare l’interesse della comunità.

3 – La perdita stessa di liquidità e dei risparmi da parte delle banche si spiega poi, a prescindere dai fattori sopra esposti, con la struttura stessa del sistema bancario per cui una crisi di consumi, guadagni e capacità di restituire denaro da parte dei clienti delle banche in un certo momento storico determina inesorabilmente il fatto che una banca non possa assicurare i propri depositi né la continuità dell’erogazione di credito: la capacità di una banca di prestare dipende dallo status quo economico, per cui essa non può rispondere ad una crisi sistemica con denaro creato ad hoc per pianificare lavoro e ricchezza per poi risarcire, tramite la creazione di quel lavoro e di quella ricchezza, chi aveva messo i suoi risparmi in circolo ed è stato poco sfortunato. Essa può solo cercare di attirare altri azionisti o depositanti “scommettitori” facendo loro credere, ingannevolmente o meno, che il pericolo di perdita sia minimo. Anche qui è evidente come una logica di collaborazione sociale, utile a progettare progresso, è accantonata in favore di un insieme di enti individuali (banche e risparmiatori) che cercano solo di scommettere e di passarsi “la patata bollente” e non hanno altri strumenti istituzionali o monetari per mettersi costruttivamente in contatto con i propri potenziali partner.

Abbiamo quindi qui esempi differenti di individualismo sociale che rendono l’attività creditizia e di investimento dei capitali una cieca scommessa a mo’ di sfida fra le parti in causa: l’insufficienza di supervisione nel rapporto banca-cliente, la possibilità di speculare sui titoli azionari, la commistione fra banche e industria e i conseguenti favoritismi, la possibilità di perdere tutto e l’avversione al rischio da parte di banche e depositanti in conseguenza di una crisi sistemica sono sia effetti che cause di una certa filosofia dell’azione. Quella per cui non conta collaborare collettivamente, pianificare consapevolmente tra le parti in causa per coltivare reciprocità. Conta solo l’abilità dell’ “eroe” individuale di battere o temere il prossimo, di essere più capace di indovinare la mossa dell'”avversario”, di non restare senza sedia quando la musica finisce, poiché le sedie sono meno degli individui presenti. Gli individui sono isole che devono carpire la direzione della ricchezza come fosse un bene scarso: mors tua vita mea.

La cultura Occidentale non favorisce una visione del processo decisionale in cui non esista un vincitore ed uno sconfitto. Una visione del mercato, del sistema creditizio in cui non vi siano “colpevoli di debolezza” da un lato e “geni rapaci” dall’altro è difficile da concepire in una cultura in cui la personalità individuale è interpretata come cardine del progresso.

Non tutte le culture sono così: Ken Liberman ha illustrato i suoi studi empirici sulle società aborigene Australiane: pare che in tali comunità l’idea di “individuo” come lo intendiamo noi semplicemente non esista. Non esiste il singolo che tenta di imporre (anche pacificamente) la sua opinione: ogni volta che un scelta deve essere presa il gruppo riunito agisce come un’ “asta ma senza banditore”. Ognuno ipotizza “impersonalmente” una soluzione, che non riflette il “suo” pensiero ma ciò che egli creda sia il sentire del gruppo, e se si è davvero in quest’ultimo caso gli altri ripetono ad alta voce la frase o la modificano, finché non si converge verso una visione univoca (il che avviene relativamente presto).
Gli “individui” sono prevalentemente nominati tramite nomi ‘relazionali’ (fratello, padre, amico) e non nomi di persona. E, quando una persona muore, è vietato qualsiasi riferimento ad essa, alla sua precedente esistenza: l’individuo non esiste se non come parte di una coscienza collettiva attiva.
Una cultura totalmente opposta al soggettivismo occidentale, per il quale i valori fondanti solo la competizione e la figura del “genio” o dell’ “eroe”.

Per quanto possa sembrare utopico o assurdo, è possibile concepire delle istituzioni creditizie che non mettano al centro la figura del “vincitore” e dello “sconfitto” ed il topos della “scommessa”. Vi sono stati contesti in cui la pianificazione collettiva ha prevalso, producendo meno “perdenti” dell’assetto odierno e, soprattutto, producendo un aumento di ricchezza collettiva maggiore dell’attuale.

Non si parla certamente del modello Sovietico, ma del sistema bancario Italiano che è stato in vigore lungo tutta la Prima Repubblica, fino alle riforme bancarie di inizio anni ’90. Vogliamo ricordare solo alcuni fattori importanti per i concetti che stiamo affrontando:

1 – Gli istituti di credito possedevano spesso per legge uno specifico settore di competenza (credito agrario, credito industriale, credito edilizio, ecc..) così che i dirigenti di una banca non avevano totale arbitrarietà nell’allocare le risorse: vi era una direzione dipendente dalla politica e della quale il risparmiatore era potenzialmente conscio e parte attiva tramite le decisioni sui depositi e il voto elettorale.

2 – Le situazioni di crisi venivano sempre risolte all’interno del sistema stesso tramite l’intervento statale (lo Stato era il maggior partecipante al capitale degli istituti di credito principali). I depositanti e le banche non andavano così incontro a crisi di liquidità: la collettività tutta intera garantiva i rischi dei suoi stessi investimenti e garantiva che nuovo denaro fosse sempre disponibile per finanziare la ripresa.

3 – Come contrappeso a ciò, la supervisione della Banca d’Italia verso le banche di interesse nazionale e gli istituti di diritto pubblico (tutti aventi partecipazione statale in maggioranza) era una supervisione politica, che dirigeva certi fini e non solo, come oggi, certi criteri contabili. La collettività aveva sia gli oneri che gli “onori” dell’investimento sul proprio futuro.

4 – Il coinvolgimento delle banche nel mercato dei titoli borsistici era minimo e il modello della partecipazione statale di maggioranza annullava il rischio di commistione banche-industria (tutti questi punti sono documentati nel testo di R. Costi).

Un tale sistema moderava radicalmente la filosofia della scommessa individuale nell’erogazione e nel commercio di capitali. La filosofia dell’azione privilegiata era invece quella della creazione di reciprocità a livello socio-politico. L’azione individuale in questo sistema era possibile solo in funzione del bene pubblico, in funzione dell’accettazione pubblica.

Questo sistema non ha mai prodotto una crisi bancaria, non ha mai prodotto una bolla speculativa dentro la nazione Italiana e non ha mai creato un sentimento di disparità e rancore reciproco tra debitori e creditori, tra depositanti e banche, tra azionisti e manager. Il credito era uno strumento per creare reciprocità, non una mano di poker di cui calcolare rischi e benefici meglio dell'”avversario”.

Oggi in Italia vi sono micro-realtà che tentano di applicare questo tipo di filosofia per la risoluzione di asimmetrie fra debitori e creditori, usando per esempio monete complementari oppure delle concertazioni pianificate fra le parti. La speranza è che questi siano i semi di una nuova mentalità che possa far tornare il buon senso nella gestione della cosa pubblica. L’impeto narcisista dell’individualismo e del personalismo deve lasciare spazio all’entusiasmo della cooperazione costruttiva.

One comment on “IL CRACK DELLE BANCHE ITALIANE: PRENDIAMO ESEMPIO DALLA PRIMA REPUBBLICA (E ANCHE DALLE SOCIETA’ ABORIGENE)
  1. Ennio ha detto:

    Ma, comunque, nonostante la scacrosanta e fondamentale battaglia contro la finanza turbocapitalista globale, si lasciano passare i post di volgarissimi cravattari, speculatori finanziari che meriterebbero una lunghissima permanenza in galera, che propongono prestiti per sciacallare ulteriormente sulle ossa gia’ spolpate dagli avvoltoi delle banche.

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