«Viene un moto di ribellione quando ormai è scontato che qualsiasi manager può guadagnare 500 volte più dei suoi dipendenti, questo è un modo di fare la guerra tra i lavoratori». Il tema dell’iniquità degli stipendi degli executives torna di moda di tanto in tanto nella narrativa dei sindacati, facendo puntualmente fiorire commenti sulla supposta ipocrisia di simili parole dagli ambienti “progressisti” e commenti sulla presunta giustificazione di tali guadagni dagli ambienti dei teorici del liberalismo.
E, in effetti, chi siamo noi per giudicare la quantità del denaro offerto ad una persona se questo riflette le granitiche leggi della domanda e dell’offerta? Se, come implica la filosofia di J. S. Mill, nessuno può ragionevolmente sapere cosa sia meglio per un’altra persona e, quindi, se e quanto gli sforzi soggettivi e la fatica lavorativa di un individuo si rapportino a quelli di un altro: non possiamo scientificamente obiettare alla distribuzione di denaro attuata dalle leggi mosse dalla “libertà” d’impresa. Perciò non dobbiamo prendere posizione. Prendiamo per buona questa tesi, per la quale sarebbe biologicamente possibile che un manager necessiti di 500 volte tanto la remunerazione di un ordinario lavoratore per sopperire ai suoi sforzi (prendiamola per buona a livello teorico, lasciando alla libertà di ognuno la facoltà di reputarla sensata nell’esperienza pratica).
Possiamo però formulare un giudizio sulla qualità dei parametri che portano a questa distribuzione di ricchezza. Se, infatti, riportiamo alcune delle più importanti osservazioni sul meccanismo interno all’impresa che è responsabile di tale allocazione, potremmo avere l’impressione che esso sia un circuito chiuso, totalmente amministrabile da pochi attori interni al circuito i quali sono capaci di allocare la ricchezza a seconda dei loro desideri e valori, senza l’interferenza di fattori esterni, senza l’interferenza di valori quali il bisogno e il merito degli altri dipendenti o, addirittura, l’efficienza e il progresso produttivo della compagnia, come mostra un noto paper pubblicato sul Journal of Management. Il che non significa che questi valori non possano essere presi in considerazione (poiché spesso lo sono, soprattutto il secondo), ma che essi possano benissimo anche non esserlo. Una macchina completamente autosufficiente, quindi, che fa riferimento solo a se stessa, indifferentemente da possibili altre soluzioni che potrebbero fare il bene dell’azienda, degli altri lavoratori o del contesto sociale.
Questi meccanismi interni “autoreferenziali” possono essere riassunti in due tipologie:
1 – La prima è connessa a quella che J. K. Galbraith chiama, con un interessante neologismo, tecnocrazia nel suo noto libro The New Industrial State. Questo concetto descrive come spesso le decisioni che concernono la gestione commerciale e tecnica di una grossa azienda (come l’assunzione di determinati manager, la scelta di determinate politiche produttive o commerciali e, dunque, la scelta del compenso da dare all’amministratore delegato e agli altri membri del management) non sono completamente controllabili dai suoi proprietari o azionisti e sono in funzione di fattori quali «compulsion», ovvero il potere che ha il gruppo dirigente e i vari “tecnici” (apparati amministrativi, esperti in ambiti specifici come ingegneria o marketing, ecc..) di imporre i suoi personali obiettivi, indifferentemente dal bene “comune”. Ciò determina la necessità dell’identificazione, da parte di tutti, in questi obiettivi (di produzione, di marketing, di sviluppo tecnologico). Ciò avviene sia per una sorta di sudditanza al ruolo e alle idee di un “superiore” – che non è neanche ben controllato dagli azionisti – sia anche a causa del fatto che, tautologicamente, molti ruoli appartenenti al management e quelli appartenenti al consiglio di amministrazione (che decide, in teoria, i compensi dei manager) sono spesso ricoperti dalla stessa persona. A ciò si aggiunge la convenzione per cui i maggiori manager (spesso anche azionisti dell’azienda) svolgono un ruolo nella nomina dei consiglieri che saranno poi votati dagli azionisti.
2 – Lo stesso accavallamento di ruoli, che a volte incrocia anche compagnie differenti, è alla radice della possibilità di spingere per transazioni e speculazioni finanziarie che favoriscano i redditi di alcuni membri della “tecnocrazia” (com’è noto, essi sono solo in parte costituiti dal normale “stipendio” e molto da cose come stock options, azioni, ecc..). Come nota, ad esempio, Tim Mullaney della CNBC, «l’impegno negli affari di John Malone ha aiutato a generare grossi stipendi per i manager che si sono a lungo impegnati a far cedere molti dei businesses di Liberty Media, di cui Malone è presidente del consiglio di amministrazione, senza dover pagare tasse. Tra i beneficiari vi sono l’amministratore delegato di Liberty, Greg Maffei, il direttore di Discovery Communication e Tom Rutledge della Charter Communications controllata da Malone».
Queste dinamiche per cui vi è un meccanismo che si autoalimenta dei propri obiettivi e valori pone gli stessi disagi “esistenziali” alla comunità di quelli di cui parla Martin Heidegger nei suoi commenti alla tecnica contemporanea. Per Heidegger tutti gli ambiti umani in cui viene pedissequamente programmata ed applicata una tecnologia, una tecnica allo scopo di produrre e dominare in maniera totalmente calcolabile il contesto circostante, è espressione del nostro pregiudizio metafisico per cui la verità sarebbe nelle mani soltanto del soggetto ideale che ha o dovrebbe avere la capacità di dominare conoscitivamente e praticamente il mondo, com’è il caso nell’indiscriminato progresso tecnologico a discapito della riflessione sui fini esistenziali e culturali di esso. Il soggetto che domina sarebbe fatto della stessa struttura che riflette il mondo e proprio grazie alla conoscenza di essa può, si suppone, dominarlo. Una riflessione che sembra essere fatta apposta per descrivere l’autoreferenzialità dello stato di cose descritto sopra, in cui la struttura manageriale delle compagnia forma sia il contesto ristretto e chiuso in se stesso e, quindi, facile da dominare sia i soggetti – o i tecnici – stessi che lo dominano. La creazione di una tecnica di dominio coincide con la creazione del tipo di mondo da dominare.
Ogni creazione di valori, di cultura, di gusti che vadano fuori degli obiettivi chiusi del circolo tecnico è considerata “insensatezza”. La tecnocrazia aziendale sembra essere uno degli apici della creazione di tecniche che si auto-alimentano, volte a dominare un contesto, perpetrando circolarmente gli stessi obiettivi e gli stessi valori (quelli pecuniari dei soggetti che dominano lo schema sociale attuale).
Vi è possibilità di rompere il circolo? Forse tramite una partecipazione reale della totalità dei lavoratori al management dell’azienda, forse anche attraverso una supervisione pubblica delle finalità produttive dell’azienda stessa (che non dovrebbero essere speculative e non dovrebbero causare esternalità negative all’ambiente fisico e umano circostante) si potrebbe raggiungere il mondo delle “possibilità”, un altro livello esistenziale rispetto al mondo della mera calcolabilità e autoreferenzialità. Un mondo in cui prosperano anche altre, possibili aspirazioni. La rivoluzione sociale di cui abbiamo bisogno passa anche da questo.